Tre ritratti
di un poeta di ambigua fama
Por Antonello Piana
1. L’AMICO
È arrivato per sedersi al tavolo intorno a cui sediamo tutti
noi quotidianamente in attesa della catastrofe promessa e sempre dilazionata,
alla notte successiva, a data da destinarsi, sempre incombente e mai
avvistata in porto. Il pudore di sé, non si può defi
nire altrimenti che genuino, lo induce a sorridere sgusciando senza
appagamento.
È arrivato per sedersi al tavolo intorno a cui sediamo tutti
noi quotidianamente come un naufrago che approda a uno scoglio desolato,
col
sollievo che prevale sulla prostrazione ma senza farne mostra. Avvertiamo
tutti nel suo ritorno qualcosa di struggente, un vago sentimento degli
anni sugli abiti, sulle gote, sulle schiene. È un ritorno sottotono
e senza importanza, senza timbri di festa, come preannunciato dall’inizio.
È invecchiato ma non è diventato piú saggio,
solo i suoi slanci sono attutiti da un sorriso di imbarazzo, quasi
di giustifi cazione per la loro longevità.
Sembra fare ritorno da un libro incompiuto e aperto, costellato di
perle sparse nel fango, chissà intenzionalmente sconclusionato
e astruso, tra le cui pagine si sia smarrito senza neppure provare
a orientarsi, allergico al vittimismo e al compiacimento, inseguendo
le fi gure nebulose dell’infanzia che non hanno mai abbandonato
la scena dei suoi baloccamenti.
La lingua è annodata, appiccicosa, tutto il contrario della
penna, non riesce ad afferrare i pensieri, le sue labbra si aggrappano
all’aria, i denti carbonizzati rincorrono i tempi della libertà
smodata ma non hanno piú la forza di esigere. Beve una dopo
l’altra le suebirre Kristall senza limone, come se avesse da
annegare la sete perduta tra mandrie e sabbie senza sbocchi, un ennesimo
oggetto di nostalgie.
Parliamo di poeti morti o incatenati, di prigionieri liberati troppo
tardi per riguadagnare qualsivoglia libertà. Tutti noi vorremmo
aiutarlo, senza distinzioni se non nel modo, ma quel modo non esiste
per nessuno. Sguscia acconsentendo ed è a tutti chiara l’ennesima
manovra di raggiro, nel senso letterale e in quello fi gurato di circonvenzione.
La sua tragedia non è lenibile ma non per questo la sigaretta
tra i denti si scompone, in fi n dei conti non è condivisibile
da chi vuole esorcizzarla.
2. LA MOGLIE
A quel tempo avvertiva la nostra presenza come un impedimento alla
stesura dei capolavori che aveva in testa, sempre e solo in testa,
tutta la vita che correva solo nella sua testa. Trovava sempre piú
assidui e fantastici pretesti per non rientrare a casa, appuntamenti
con fantomatici lettori di altrettanto
sedicenti quanto facoltosi editori, che smaniavano per pubblicargli
una raccolta di versi ancora tutta da scrivere, appuntamenti per sovraffollate
letture clandestine, o presunte tali, in casa di qualche generosa,
o presunta tale, amicizia, soprattutto improbabili spedizioni che
duravano anche giorni alla ricerca di qualche spicciolo, la maggior
parte delle volte spillato a buon rendere a qualche autore affermato
e compromesso, la cui cattiva coscienza non riusciva a sottrarsi alla
solidarietà delle muse. Possedeva l’innato talento, dovuto
forse alla sua incapacità di piegarsi alle incombenze quotidiane,
di far sentire in colpa il suo interlocutore con la sua sola presenza
e soprattutto senza averne la minima intenzione.
Piú tardi avrebbe invece trovato molte donne disposte a fargli
dono di un fi glio, o meglio, è vero il contrario, desiderose
di avere un fi glio dal poeta, un fi glio di poeta, e lui le avrebbe
quasi sempre esaudite senza fare domande o complimenti o distinzioni.
Forse perché non avevano mai preteso altro che il suo seme,
al contrario di me, questo il piú fatale dei miei errori. E
io continuavo a tenere la posizione nella nostra insalubre soffi tta,
mentre lui rientrava a giorni alterni con la sua
scalcinata cinepresa da villeggiante in canottiera, con quegli occhi
acquosi, incapaci di inquadrare un oggetto per piú di un istante,
mentre i nostri silen zi si espandevano tremuli come l’aria
calda sopra la fi amma della stufa. Invariabilmente a un certo momento
mi sopraffaceva il desiderio che se ne andasse al piú presto,
che ci liberasse per sempre da quell’assenza impossibile da
riempire. Quel desiderio montava in me come un bisogno sempre piú
urgente, fi nché non defl agrava in un urlo isterico che gli
faceva sbattere la porta e puntualmente svegliava il piccolo.
3. IL DISCEPOLO
E’ inutile che mi provi a scrivere. Perchè non ha senso
alcuno, nessu-no scopo, nessuna funzione, nessuna speranza di risultati.
È tanto semplice. L’esperienza del dolore non può
essere riprodotta perchè non può essere comunicata.
Solo gli stupidi o gli imbroglioni scrivono, ma in verità solo
la musica può trasmettere l’esperienza, perché
la può trascendere, perché è fuori dal mondo,
l’unica esperienza al mondo che è anche fuori dal mondo,
terrena e ultraterrena, inaccessibile alle persone a cui è
inaccessibile, senza tautologie, e accessibile alle persone a cui
è accessibile, senza trucchi di sorta.
La scrittura è invece inganno in tutte le sue forme, la poesia
è inganno, il teatro è inganno, la narrativa è
puro inganno; di più, la narrativa è la frode più
grande che abbia mai fatto capolino sulla faccia della terra. Tutti
possono scrivere. Non esiste alcun merito nel saper scrivere, perchè
non c’è assolutamente niente da scrivere. L’unica
cosa che c’era da scrivere è già stata scritta
da lui, dall’unico scrittore che abbia mai avuto un senso, sia
a esistere che a scrivere. Sempre che sia davvero esistito e abbia
davvero scritto qualcosa. Non solo perché è stato l’unico
a scrivere che non c’è assolutamente niente da scrivere,
perché si è limitato a scrivere quanto non ci sia proprio
niente da scrivere, assolutamente niente. Ma anche perchè in
effetti non ha mai scritto niente. L’unico scrittore ad essersi
rifi utato di scrivere, ad avere fi nto di scrivere per tutto il tempo
senza assumere pose disfattiste.
E perché in fondo non è mai esistito, perché
nessuno lo ha mai ammirato senza commiserarne la faccia da impotente
predestinata all’oblio. Miserabile illuso.