Il "Rabelais" Veneto: Teofilo Folengo alias Merlin Cocai, frate, ma sopratutto splendido poeta maccheronico

Franco Vicenzotti

Nel momento storico del pensiero unico e del Consenso americano, della globalizzazione omologante, i Paesi di antica civiltà come l’Italia sempre più sentono il bisogno di recuperare antiche tradizioni, radici, stili di vita locali, tra cui la propria tradizione enogastronomica.
Di fronte all’invasione mondiale dei “sandwichcs” e “hot-dogs” di McDonald’s, l’Italia si trova ad essere in una posizione di avanguardia nella difesa dello “slow food” contrapposto al “fast food”, che, peraltro, comincia a trovare obiezioni negli stessi Stati Uniti dove qualcuno si è accorto che le frattaglie e le carni di scarso valore nutritivo e di alto livello lipidico sarebbero alla base della diffusa obesità che affligge i nord americani.
Si assiste da noi ad un fiorire di iniziative per la celebrazione dei prodotti vinicoli, caseari e gastronomici della tradizione italiana: dal Festival del Vino a Torino alla Kermesse dello “slow food” a Perugia, al rilancio dell’allevamento della vacca chianina. L’obiettivo è alla fine individuare e proteggere le componenti della produzione enogastronomica italiana che sono alla base della tanto decantata “douceur de vivre” dell’Italia.
Si scopre sempre più che la enogastronomia è componente fondamentale della civiltà italiana e delle Nostre tradizioni culturali al punto che oggi agli stessi Istituti di Cultura viene indicato di promuoverne all’estero fasti e tradizioni.
Se quanto sopra è indiscutibile, ritengo giusto allora presentare un famoso intellettuale veneto, grande maestro di cucina, Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai (1491/1544), autore delle “Doctrinae Cosinandi” (quelle che noi
analmente chiamiamo ricette). Lui fu certamente il precursore, antesignano di quanti vanno affermando oggi l’importanza ell’enogastronomia (da lui definita “arts lecatoria”) nella nostra cultura, tant’è che scrisse i suoi poemi in versi “maccheronici”.
Il brano che segue è uno di più significativi dello stile e dei temi del Nostro: tratto dal “liber primus” del “Baldus”. Segue sotto la traduzione in italiano di G. Tonna, dall’ed. Feltrinelli, Milano 1958, a cura di G. Dossena.
Phantasia mihi plus quam phantastica venit historiam Baldi grassis cantare Camoenis. Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum. Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat, o macaroneam Musae quae funditis artem. An poterit passare maris mea gundola scoios, quam recomandatam non vester aiuttus habebit? Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia, non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent; panzae namque meae quando ventralia penso, non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam.
Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae, Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala, imboccare suum veniant macarone poëtam, dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos. Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes, albergum quarum, regio, propiusque terenus clauditur in quodam mundi cantone remosso, quem spagnolorum nondum garavella catavit.
Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur, quam smisurato si quis paragonat Olympo collinam potius quam montem dicat Olympum.
Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi, non solpharinos spudans mons Aetna brusores, Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas, quas pirlare vides blavam masinante molino: at nos de tenero, de duro, deque mezano formaio factas illinc passavimus Alpes.
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam possem, per quantos abscondit terra tesoros: illic ad bassum currunt cava flumina brodae, quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti. Hic de materia tortarum mille videntur ire redire rates, barchae, grippique ladini, in quibus exercent lazzos et retia Musae, retia salsizzis, vitulique cusita busecchis, piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas. Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat, turbatisque undis coeli solaria bagnat.

Traduzione:
Mi è venuta la fantasia - una matta fantasia – di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama altisonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra, e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga addosso. Ma prima l’aiuto vostro bisogna chiamare, o Muse che spandete la bell’arte macaronica.
Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non la raccomandasse? E non mi stiano a soffiare negli orecchi i loro carmi né Melpomene né quella minchiona di Talia né Febo che se ne sta grattando tutto il giorno la sua chitarrina: perché quando penso al budellame della mia pancia, non fa per me, per la mia piva, la chiacchiera del Parnaso. Ma solo le Muse mangione, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano qui a imboccare il loro caro poeta di gnocchi, e mi diano cinque o anche otto tegami di polenta fumante. Queste sono le mie dee e le mie ninfe, bell’e grasse che colano; e il loro albergo, la regione e terra loro è lontana lontana, in un cantone del mondo che la caravella degli Spagnoli non ancora è stata buona di trovare.
C’è qui una grande montagna che si leva fino alle scarpe della luna e se uno la vuol paragonare allo smisurato Olimpo, non un monte ma una collina deve dire che è l’Olimpo. E qui non ci sono le corna del Caucaso, non la schiena del Marocco, non l’Etna che sputacchia ogni tanto i suoi colanti bruciori di zolfo: qui non viene Bergamo a cavare, come fa nelle sue montagne, le rotonde macine che poi vedi pirlare nei mulini e tritare le granaglie: ma Alpi di formaggio sono quelle che noi abbiamo passato per di là - formaggio ora tenero, ora ben stagionato, ora di mezza via.
Credetemi, non sono tanto storie, ve lo giuro: e poi una bugia, anche una sola, non la direi per tutto l’oro del mondo. Al basso corrono giù cavi fiumi di buon brodo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un pelago di stracottini. E qui passano e ripassano barche, barbotte, brigantini, agevoli e snelli, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano lacci e reti - reti cucite con budelle di maiale e con busecche di vitello - e pescano gnocchi, frittole e gialle tomacelle. Ma è un grosso guaio quando quel lago va in travaglio e con l’onde turbate bagna i solai del cielo.
Come è evidente il Nostro che si inserisce in quella corrente poetica minoritaria ma importantissima della nostra civiltà letteraria che va da Folgore di San Genimiano a Cecco Angiolieri arrivando a Giorgio Baffo, Gioacchino Belli, Carlo Porta ed infine a Trilussa sostiene ed esalta le ragioni del corpo e delle sue esigenze, alimentari, fisiologiche, riproduttive, eccetera.
La ragione per cui nel suo poema si raggiunge un eccezionale livello di straniamento e di comico-grottesco è che il Nostro usa le formule del poema epico, classico, paludato, con costanti riferimenti al mondo dei miti e delle metafore greco-romane che per i poeti epici erano d’obbligo: quando definisce la musa Talia «minchiona» ovviamente questo suscita immediata ilarità. Il grottesco è ancora più esaltato dalla pirotecnica invenzione linguistica del Nostro poeta che costantemente contamina il latino classico con espressioni popolari che vengono dai ceti più umili o con parole che già appartengono alla koimè volgare padana: il tutto peraltro sempre presentato con una ineccepibile metrica in esametri classici. Certamente Virgilio non avrebbe detto «sibi cagat adossum» ma la metrica, come accenato, è perfetta: questo contrasto ancora più esalta il comico grottesco e crea un grande effetto di straniamento.
Di fatto Teofilo Folengo che ovviamente appartiene alla stessa linea di demitizzazione del poema epico del Pulci e di Matteo Boiardo o per la civiltà ispanica, del mondo epico cavalleresco di Cervantes, anticipa le tematiche, le forme e l’invenzione verbale pirotecnica che ritroveremo pari pari in quel grande poema narrativo che i francesi ritengono fondante della loro tradizione romanzesca che sarà pubblicato non molti anni dopo del «Baldus», che è il «Gargantua e Pantagruel» di François Rabelais, che non a caso ha una creatività verbale da risultare l’autore con il lessico più ricco della tradizione francese come appunto, per quella italiana, il Folengo, e in tempi più recenti quel funambolo della parola che fu il Gadda.
Famose sono le invettive nel «Baldus» contro la corruzione, la crapula, il disordine morale e l’ipocrisia degli ecclesiastici del suo tempo, anche se il Nostro certamente non scherzava con le donne.visto che proprio per le sue continue conquiste amorose era stato cacciato dall’ordine cui apparteneva, a cui sarà reintegrato solo dopo sette anni di penitenza.
Molte di queste invettive si trovano pari pari in François Rabelais, anche lui di formazione religiosa, come quella più nota e da tutti conosciuta che qui riproduciamo, dal testo di Giovanni Macchia con traduzione a fronte di A. Frassineti:
Inscription mise sur la grande porte de ThélèmeCy n’entrez pas, hypocrites, bigotz, vieux matagotz, marmiteux, borsoufléz, torcoloux, badaux, plus que n’estroient les Gotz
ny ostrogotz, précurseus des magotz,Haires, cagotz, caffars empantouflés, Gueux mitouflés, farpars escornifléz,Befflé, enfléz, fagoteurs de tabus ; Tirez ailleurs pour vendre vos abusVos abus meschan Repliroient mes camps De meschanceté ; Et par faulseté Troubleroient mes chants Vos abus meschans.

Traduzione:

Così era scritto sulla porta maggiore di Thélème: Qui non entrate, ipocriti e bigotti, vecchie bertucce, tangheri, marpioni, bacheche, collitorti, mangiamoccoli; qui non entrate, puttanieri in zoccoli, straccioni incappucciati, spigolistri, picchiapetti, scrocconi, cattabrighe e stronfioni: le vostre ragne andate altrove a tendere, non vi son merli qui per voi da prendere desolerebbe i miei campi
la vostra iniquità: turberebbe i miei canti la vostra falsità

Ma allora se l’influenza del Folengo su François Rabelais è tanto evidente, come del resto indiscutibile il suo valore letterario perché l’autore di «Gargantua e Pantagruel» è da sempre considerato uno dei numi tutelari della civiltà letteraria in Francia mentre in Italia l’autore del «Baldus» è quasi sconosciuto? Sarà che la Storia - anche la storia letteraria - è sempre scritta dai vincitori?

 


Voltar para última edição

Mosaico Italiano #5

Amélia Sparano: "Vissi d'arte, vissi d'amore" (Maria Helena Kuhner / traduzione di Giuseppe D'Angelo)

Il "Rabelais" Veneto: Teofilo Folengo alias Merlin Cocai, frate, ma sopratutto splendido poeta maccheronico (Franco Vicenzotti)

Arte e Tecnologia, ecco la nostra doppia carta vincente (Francesco Alberoni)

Pieve de Loppia (Julio Vanni)

Mosaici a Rio (Antos Venturi)

Carlo Levi - La pietà nella compresenza dei tempi (Amarilis Gallo Coelho)

Lucania: un incontro d'amore di Carlo Levi (Giuseppe D'Angelo)

Cognomi Imbarazzanti (Giuseppe D'Angelo)

Un itinerario siciliano (Milva Scorpioni)

Eugenio Montale: Una voce di là dal muretto (Francesca Barraco Torrico)

Anna Maria Ortese e Napoli, la sua patria di adozione (Katia Raquel D'Erico de Carvalho)

Spari con ricevuta di ritorno (Umberto Eco)