Carlo Levi - La pietà nella compresenza dei tempi

Amarilia Gallo Coelho

Carlo Levi (Torino, 1902-1975) fu giornalista, critico, medico, pittore e uomo político, oltre che scrittore. Aveva come tratti essenziali della sua personalità, l’impegno volto costantemente alla ricerca della verità e l’amicizia nei riguardi delle persone e delle cose.
Nel 1934, viene arrestato a Torino per la prima volta a causa della sua attività política (anti-fascista), quale responsabile del movimento “Giustizia e Libertà” Nel 1935, viene arrestato per la seconda volta e inviato al confino in Lucania, prima a Grassano, e poi a Gagliano, il paese i cui abitanti avrebbero assunto il ruolo di protagonisti di Cristo si è fermato a Eboli.
Il periodo trascorso da Carlo Levi al confino in Lucania (1935-1936) rappresenterà per lui un’esperienza profonda e um rapporto di affettuosa partecipazione alla sofferenza dei contadini lucani, attraverso la diretta esperienza di um quotidiano contatto.
Tra i motivi che emergono dalle sue opere, ve ne sono alcuni che affiorano chiaramente, come le loro costanti motivazioni: la pietà per la lotta contadina e la compresenza dei tempi.
La pietà di Carlo Levi è la capacità dell’autore di comprendere appieno la sofferenza altrui. La sua partecipazione alle disumane condizioni dei contadini del sud viene ad assumere, attraverso le sue pagine ed i suoi quadri, il carattere dell’assunzione di responsabilità.
L’autore non si limita alla semplice rappresentazione dei fatti, e attraverso il suo continuo dialogare con i “personaggi” e con il lettore, mette a nudo le cause di quegli stessi fatti. Il senso della pietà nei libri di Carlo Levi sottende sempre la narrazione e ne costituisce uno degli elementi piú validi e convincenti.
Nel “Cristo” Levi denuncia la grettezza e l’egoismo di una piccola borghesia che chiamava i “luigini”, dal nome del podestà del paese dove fu confinato. Ci sono pagine dove il “meridionalismo” di Levi ha accenti che colpiscono per la loro attualità. Levi affermava: “il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea política ed una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini, che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza”.
Questi motivi furono rappresentati dall’autore non da parole e definizioni astratte, ma dalle immagini che scaturivano dai suoi racconti e dai colori sulla tela. Levi era soprattutto pittore, e lo era anche quando scriveva e quando parlava su tutta la storia del período trascorso al confino, nella desolata, ma affascinante provincia di Matera: la malaria, i banditi, i malati, la magia, il medico, il prete, le donne...
Ma le immagini per Levi non erano solo pure forme. Erano simboli viventi, cioè cose sensibili di significati nascosti, immersi nella memoria collettiva, piú profonda della storia, dove si identifica una nuova dimensione temporale, che è appunto compresenza del presente vissuto e del passato rievocato dalla memoria, come pure, qualche volta, del futuro anticipato da un’intuitiva visione della realtà.
Il mondo magico e arcaico dei contadini lucani, la loro disposizione a considerare la natura che li circonda come animata da entità, coesiste con le vicende presenti dei contadini, la loro sofferenza, il loro paziente atteggiarsi di fronte al dolore. L’autore incessantemente percorre la distanza fra quell’arcaico passato e il presente in cui le vicende del libro si svolgono.
Le immagini ed i motivi già registrati dalla narrativa, dalla poesia e dalla pittura, acquistano continuità di rappresentazione quando il regista Francesco Rosi, con il film Cristo si è fermato a Eboli (RAI, 1995), tratto dall’omonimo libro di Carlo Levi (1945), presenta un’altra volta quella dimensione reale e fantasiosa che Levi chiamava “mia terra” e “mia gente”.

 


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