Giuseppe D'Angelo: un
poeta di vita
Maria Pace Chiavari
Con
molto affetto, stima e una certa emozione ricordo il Professor Giuseppe
D’Angelo con cui ho lavorato dal 1987 al 1992, periodo in cui
era direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Rio de Janeiro.
In quegli anni è nata una lunga e duratura, anche se a volte
tempestosa, amicizia.
D’Angelo arrivò a Rio con la volontà di rimettere
in piedi la sua vita, prostrato dal dolore per la morte prematura
della sua prima moglie, Dominique, di cui parlava con tanta ammirazione.
Con l’ impeto e l’ entusiasmo che lo caratterizzavano
ha introdotto venti nuovi all’interno della vecchia struttura
dell’Istituto, creando armonia e amicizia tra gli impiegati
e tutto il personale al posto degli antichi asti e competitività.
Per quanto riguarda le relazioni con il pubblico e le istituzioni
brasiliane, ha aperto porte, eliminato distanze, tanto quelle reali,
tra il Brasile e l’Italia, tanto quelle formali, con una democratizzazione
delle gerarchie. Sotto la sua guida l’Istituto ha acquistato
un grande distacco nel panorama culturale carioca. Potremmo parlare
di prima e dopo D’Angelo.
Lavorare con lui è stata una esperienza che mi ha arricchito
molto. A volte scherzando gli rimproveravo di volermi gettare senza
scrupoli nella fossa dei leoni, come quella sera al Teatro Glauber
Rocha quando all’ultimo momento, senza nemmeno aver letto il
testo, mi chiese, per non dire impose, di tradurre parti di uno spettacolo
orientale del TTB, Teatro Tascabile di Bergamo. Io morta di timidezza,
sola nel palco accanto all’attore, davanti ad una platea di
quattrocento persone, riuscii a suscitare, fuori testo, una ilarità
generale nel tradurre “erotico” con “eroico”.
Chi rideva più di tutti era il proprio D’Angelo che mi
prendeva in giro per la mia “pruderie” borghese.
Il CITEC (Centro Internacional de Teatro Contemporâneo) è
stata una sua creazione, estremamente innovativa nel panorama carioca.
Per la prima volta a Rio de Janeiro fu stabilito un accordo che associava
le istituzioni culturali federali, statali e municipali. L’Istituto
Italiano di Cultura funzionava come perno di questo sistema, capace
di attrarre a Rio numerosi e celebri gruppi teatrali italiani e personaggi
come Eugenio Barba, Dacia Maraini e Dario Fo.
Il femminismo, ereditato da Dominique, si rivelava in D’Angelo
l’8 marzo quando arrivava in Istituto con un mazzo di rose rosse,
per distribuirle a tutte le impiegate e visitatrici e festeggiare
così il giorno della donna.
Il genio vulcanico e polemico, lo spirito di Don Quichote si mescolavano
in lui con l’umanità, la generosità, la semplicità
francescana e una profonda dignità, presente quest’ultima
fino alla fine, e che costituivano le caratteristiche predominanti
della sua peculiare personalità. Curioso come un adolescente,
ha sempre affrontato il mondo e le sue esperienze con la passione
di un giovane innamorato.
Il suo itinerario da Ginosa a Rio de Janeiro, ricolmo di storie mirabolanti,
incontri interessanti, degni di essere stati tutti registrati, lo
ha trasformato da maestro di scuola a direttore di un istituto internazionale
di cultura.
A noi ha lasciato l’ immagine di un grande maestro che ha girato
per il mondo come se fosse il suo paese nella ricerca di avvicinare
i popoli senza discriminazione di razze, classi e religioni.
Il mio ricordo di D’Angelo è, come lui stesso voleva
definirsi, di “un poeta di vita”, sensibile davanti alla
miseria e alla sofferenza, coraggioso nell’ aprire nuovi cammini,
esprimere le sue idee e credere nell’umanità senza mai
aver paura delle conseguenze.