A un collega brillante e creativo, a un amico generoso e sincero

Francesco Vicenzotti

Conobbi Giuseppe D’Angelo quando né lui né io sapevamo che esistessero gli Istituti Italiani di Cultura: lui era giovane assistente di Letteratura Ispanoamericana presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Padova, io iniziavo da “matricola” i miei primi passi nello sconosciuto ed entusiasmante mondo accademico; era forse il secondo o terzo anno dei miei studi universitari quando cominciai a frequentare quella che sarebbe poi diventata mia moglie Rossana Costa, studentessa alla Facoltà di Magistero; attualmente docente di Pedagogia presso l’Università, Rossana più volte mi parlò dell’entusiasmo e dell’interesse che un giovane assistente di Ispanoamericano, suscitava presso gli studenti di Magistero – scoprirò poi che l’interesse era maggiore presso le studentesse - dall’aspetto decisamente bizzarro, anomalo, nell’ambiente ultra conservatore, bigotto e provinciale della Padova dei primi anni ’60.
Incuriosito – forse anche un po geloso – dei continui riferimenti di Rossana al carismatico docente di Ispanoamericano decisi di frequentare, come uditore, alcune delle sue lezioni. Scoprii ben presto che con D’Angelo si stava diffondendo, nel chiuso ambiente accademico padovano una curiosità quasi morbosa, un interesse quasi fanatico, una passione quasi delirante per il realismo magico , la poesia e la narrativa dell’America Latina, le sue culture indigene, la sua realtà socio-politica che veniva presentata come pre-rivoluzionaria. Gli studenti si esaltavano, venivano portati dalle capacità maieutiche, quasi istrioniche di D’Angelo, a una passione fanatica per le opere di Octavio Paz, di Vargas Llosa, di Jorge Guillén, di Jorge Amado, di Lezama Lima, di Cabrera Infante, di Arguedas, ecc.
Aitanti e robusti ragazzotti veneti e ruspanti e salubri bellezze padane si dimenticavano delle tristi brume e del costante grigiore del clima padovano per essere trasportati ai tropici sudamericani, sulle Ande innevate, sulle spiagge del Caribe, nella foresta amazzonica: gli Inca, i Maia, i Quechua diventavano, ai loro occhi, più vicini dei Lombardi o dei Liguri, portatori di verità e di utopie che la vile conquista coloniale spagnola e portoghese avevano eclissato per molto tempo senza, peraltro, poterle cancellare.
Ricordiamoci che eravamo a ridosso del mitico “68” e i giovani europei erano intossicati di terzomondismo; il “livre de chevet” era “I dannati della terra” di Frantz Fanon, i nuovi eroi erano quei popoli che novelli Davide combattevano per affrancarsi dal giogo coloniale contro potenze ben superiori come Stati Uniti e Francia (soprattutto Indocina ed Algeria).
In effetti, c’era un atteggiamento da parte di questi studenti che denunciava una specie di masochismo psicologico collettivo: la vecchia Europa, con la sua civiltà, era la causa di tutti i mali del mondo, di ogni oppressione e ingiustizia sociale; solo gli ex reietti colonizzati e stuprati dagli europei avrebbero indicato nuovi percorsi per realizzare il sogno di un’umanità più solidale, felice e realizzata.
Giuseppe D’Angelo fu, per alcuni anni nel mondo accademico padovano, una specie di “guru” che predicava il nuovo vangelo.
Con lui gli studenti cominciarono ad apprezzare Juan Rulfo, Augusto Roa Bastos, Miguel Angel Asturias, Octavio Paz ecc.
Con la “Guerra del fin del mundo” di Vargas Llosa, soffrirono e sospirarono per le vicende delle masse diseredate al seguito del “conselheiro” a Canudos nel nordest brasiliano, mentre si appassionavano, leggendo l’immortale “Grande Sertão” di Guimarães Rosa, delle vicende del “Iagunço Riobaldo”; con “Tres tristes tigres” di Cabrera Infante rivivevano le magiche notti del “Malecón” dell’Avana e si esaltavano alle avventure e disavventure di Aureliano Buendia con “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez. È chiaro che D’Angelo si infervorava e trasmetteva tale fervore soprattutto per i poeti rivoluzionari cubani José Martí e Jorge Guillén o cileni come Pablo Neruda e non poteva non essere altrimenti. D’Angelo, infatti, era comunista a livello viscerale, grande amico del Senatore Ceravolo rappresentante, a Padova, del Partito Socialista di Unità Proletaria, e di tutti gli studenti poveri e squattrinati che dal profondo Sud sceglievano di studiare a Padova, città ricca e borghese per eccellenza in cui si sarebbero sentiti, senz’altro, emarginati se non rifiutati se non ci fossero stati alcuni buoni samaritani come D’Angelo, appunto, che per affinità etnica, culturale e sociale sentivano il bisogno di introdurli nei segreti meandri di una città colta, raffinata, ricca ma indubbiamente chiusa e divisa in segrete conventicole.
D’Angelo perennemente squattrinato non esitava a dar fine alle ultime lire per far mangiare un povero studente calabrese o pugliese più squattrinato di lui. Il suo aspetto - già lo abbiamo visto - era volutamente anticonformista: portava lunghi capelli neri a scendere sulle spalle e quasi ad anticipare una moda che si sarebbe imposta un decennio più tardi, si vestiva con colori vivaci e sgargianti che decisamente era impossibile non notare nell’allora diffuso grigiore padovano.
Personalmente debbo molto a D’Angelo: innanzitutto la passione per l’America Latina e il suo affascinante mondo narrativo e poetico; fu con lui per esempio che scoprii nella splendida traduzione del collega Bizzarri il “Grande Sertão” di Guimarães Rosa e il mitico magico mondo del Brasile; una delle prime iniziative che realizzai come Direttore dell’Istituto di Rio de Janeiro fu di ripubblicare il “Carteggio Guimarães/Bizzarri” e di lanciarlo in una memorabile Tavola Rotonda nella nostra “Sala Italia”, evento cui, con mia grande emozione, partecipava la figlia del grande scrittore. In quell’occasione dissi che a pochi giorni del mio arrivo in Brasile ero corso a comprare il grande romanzo in lingua originale nella speranza di poterlo finalmente apprezzare in portoghese: ahimè... ero arrivato a pag. 5 dove mi ero fermato di fronte alla complessità della lingua barocca, sperimentale, indigenista, zoologica e botanica, regionalista, ricca dei più svariati gerghi professionali di cui il “Grande Sertão” è farcito.
Peraltro il Presidente della Academia Brasileira de Letras, Ambasciatore Silva e Costa sorridendo mi disse: “... non occorre capire, basta abbandonarsi al flusso della musica delle parole”. Anche di questa musica sublime sono debitore a Giuseppe D’Angelo.
Dopo i tempi padovani ci perdemmo completamente di vista; lo riincontrai al Ministero degli Esteri dove, in una riunione presso la Direzione delle Relazioni Culturali, guidata dall’allora Ambasciatore Sergio Romano, rivendicava con la passione, la determinazione, il coraggio e la generosità che lo caratterizzavano, richieste che erano di tutta la categoria e di cui lui era il vibrante portavoce. Cementammo allora un’amicizia che era appena sbocciata a Padova, amicizia consolidatasi sulla base di una forte solidarietà professionale ed indubbie affinità elettive.
Grande fu la reciproca gioia nel riincontrarci a Rio de Janeiro, dove anni prima Giuseppe D’Angelo era stato chiamato a svolgere la delicata e importante funzione che ora incombe sulle mie spalle: spero di lasciare alla fine della mia missione la stessa immagine di creatività, generosa dedizione professionale e calore umano da lui lasciata, oltre all’enorme patrimonio di simpatia diffusa; sicuramente non sarà un’impresa facile, anzi probabilmente è una “Mission Impossible”: di Tonino ce n’era solamente uno.

 


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