Giuseppe D'Angelo nel ricordo di Gabriele Brustoloni

Gabriele Brustoloni

Non è facile per chi ha vissuto per cinque anni, fianco a fianco, quasi per ventiquattro ore al giorno, ricordare con un certo disincanto la figura umana di Giuseppe D’Angelo.
Succedutogli circa tredici anni fa alla guida dell’Istituto di Cultura di Rio de Janeiro, chi scrive, si rende conto, in queste poche righe, della facilità di cadere nella tentazione del celebrativo, della retorica bolsa o nel tranello del panegirico che, nell’elogio dello scomparso, immancabilmente gonfia ed enfatizza a dismisura l’immagine di una persona profondamente calata nella realtà drammatica di contesti sociali sofferti, pienamente vissuti ed amati.
Non voglio qui assolutamente evocare i nostri trascorsi professionali all’Istituto di Rio, il ricordo dei quali, dopo tanti anni, è ancora ben vivo negli amici e collaboratori che li hanno vissuti e condivisi con noi.
Tonino, così lo chiamavamo noi amici più intimi, è stato per un quarto di secolo operatore culturale negli Istituti Italiani di Cultura in Latino-America, per conto dell’Amministrazione degli Affari Esteri.
Iniziò la sua carriera, come Addetto all’Istituto di Bogotà, passando cinque anni dopo alla Direzione dell’Istituto di Cultura in Guatemala, ed in seguito a Lima, Buenos Aires, San Paolo ed infine Rio de Janeiro.
Una “anomala” ed imposta parentesi libanese, interruppe, verso la fine degli anni 70, la sua leggendaria presenza nei Paesi dell’America latina.
Certo, D’Angelo fu un Direttore di Istituto ed “Addetto Culturale” alquanto atipico nel suo percorso professionale; è stato amato ed apprezzato da chi ha visto in lui, in varie occasioni, chiari segnali di solidarietà e sentita partecipazione alla vita e alle vicissitudini della “povera gente” che lui amava frequentare e che lo contraccambiava di affettuosa considerazione. I suoi atteggiamenti estroversi, a volte irruenti, coinvolgenti e soprattutto non proprio in linea con alcune direttive romane, sempre manifestamente ostili alla piaggeria dominante in molti della sua categoria, lo rendevano, ai più, estremamente attraente.
Ripeteva che la vera cultura non è quella della conoscenza delle cose, ma la comprensione delle cose, cioè il donare agli altri quello che si sa, che si possiede, donare soprattutto ai più deboli, agli emarginati, nessuno escluso e di qualsiasi quadrante; essere, comunque, sempre disponibili.
Il suo è stato un modo di vivere molto impegnativo, una scelta di vita che spesso lo ha visto messo all’ostracismo dai cosiddetti “benpensanti” poiché aperto ai cosiddetti “trasgressivi” che lui prediligeva e chiamava “gente meravigliosa”.
D’Angelo ha lasciato una testimonianza di umanità sempre valida, particolarmente oggi, in questo contesto sconvolto dalla nefandezza della violenza, del razzismo di ogni tipo e dell’odio fondamentalista di qualsiasi credo.
Il suo insegnamento volutamente è andato ben oltre gli atteggiamenti didattico-moralistici, proprio lui che fu anche insegnante delle elementari, perché ha sempre saputo anteporre alla cultura saccente, pedante e discriminante, “la cultura del cuore”.

 


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