Il Mio Professore
Pietro Petraglia
Nel
momento in cui ho bisogno di manifestare i miei sentimenti, continuo
a voler fissare il mio sguardo negli occhi del mio interlocutore,
perché veda quanto mi interessa e il rispetto che sento nei
suoi riguardi”.
Ore 7.30 di mattina, squilla il telefono. Dona Angelina ormai non
dice neanche più chi è, ripete soltanto: “Dov’è
ele?” Eccomi che rispondo e comincio a sentire quella mitragliatrice
d’informazioni, idee, pensieri critici. Cosí cominciava
la mia lezione mattutina. Insegnamento che durava esattamente un’ora
e mezza tutte le mattine.
I temi erano i più svariati possibili. Si passava dall’argomento
della prima pagina di un giornale all’idea di un’attività
culturale, da una storia vissuta il giorno prima alle sue relazioni
amorose di gioventù, dalla sua convivenza con grandi nomi della
letteratura sudamericana o italiana agli esordi dell’uso illegale
di denaro pubblico italiano o brasiliano.
Il mio professore era saggio e aveva buone amicizie. Anche perché
era impossibile conoscerlo e non lasciarsi affascinare subito. Lui
non passava, conquistava uno spazio dentro di noi volendolo o no,
piacendoci o no. Questo perché, giusto o sbagliato, il mio
professore parlava con sentimento. La sua nobiltà risiedeva
nella sincerità dell’anima. Non faceva distinzioni tra
la gente. Frequentava tutti e parlava con tutti allo stesso modo.
In uno dei suoi articoli ha detto: “l’accettazione dei
‘diversi’ può essere la più elevata espressione
della comprensione umana, mentre la discriminazione, di qualsiasi
tipo, rivela appena un basso livello d’intelligenza.”
In un altro testo, parlando della sua ‘incapacità’
davanti al computer, ha detto: “Penso che la necessità
di sentire le persone e tutti gli altri esseri viventi sia legata
alla mia infanzia vissuta in un piccolo paese. Allora i contatti erano
fisici e, quindi, diretti. Parole, mimica e altri gesti erano essenziali
per capirci o fraintenderci. Le inflessioni e le intonazioni verbali
mi trasmettevano, quasi fedelmente, i veri sentimenti di chi mi diceva
parolacce, complimenti o semplicemente bugie. Invece il chat, “chattare”
in internet, risulta impersonale, distante, asettico. Ancora oggi,
nel momento in cui mia moglie mi impone di inghiottire un insieme
di vitamine geriatriche, forse temendo che io continui ad essere bambino
e, di conseguenza, irresponsabile, provo nostalgia delle favole e
dei racconti di mia madre, di mia nonna e di tutte le donne della
vicinanza che mi hanno reso uomo. Continuo a desiderare di cadere
nel mio sonno innocente, al suono delle loro voci che mi cullavano.”
Uomo nato a Ginosa, nell’entroterra pugliese, allo stesso tempo
in cui parlava delle sue chiacchierate con Jorge Luis Borges –
quando aveva vissuto a Buenos Aires – non si dimenticava delle
parole di suo padre: “paragonandomi ad altri membri della famiglia,
da contadino autentico e irriverente che era, diceva che l’asino
e la capra che vivevano con noi erano più intelligenti di me”.
Nemico dell’intolleranza, ha sempre lottato in favore dei meno
abbienti e delle minoranze. Non aveva soldi, ma riusciva ad organizzare
come pochi qualsiasi cosa che rendesse felice il suo prossimo. Era
capace di perdonare i suoi avversari e favorirli anche quando sembrava
assurdo agli sguardi degli altri.
Era stato militante del Partito Comunista ma non per questo fingeva
di non vedere gli errori che commetteva la sinistra. “A questa
attitudine di imposizione dei chiamati ‘valori etici comuni’
non è sfuggito neanche il Partito Comunista Italiano che, in
un eccesso di fobia sessuale caratteristica della mentalità
fascista, espulsò dalle sue fila il “diverso” Pier
Paolo Pasolini. Senza contare con l’imbarazzo subito dal Segretario
Generale del partito, Palmiro Togliatti, quando si separò da
Rita Montagnana per mettersi con Nilde Jotti. Gravi errori.”.
Malgrado tutto il suo bagaglio, ha sempre scelto le cose più
semplici, come quando una volta, parlando di coerenza, si è
ricordato di un suo paesano: “A proposito di coerenza, mi viene
in mente un personaggio, protagonista delle lotte per la terra sostenute
dai braccianti del mio paese, Raffaele Cavallo. Fu uno degli organizzatori
della locale ‘camera del lavoro’ e componente dell’appena
ricostituito Partito Comunista, occupazioni poco salutari all’epoca
dell’immediato dopoguerra. A un amico, mandato dai latifondisti
per comprarlo, e che gli disse di non fare il fesso e di stare tranquillo,
rispose: “Io credo nei miei principi e sono fedele al sogno
di un mondo più giusto per tutti. Pertanto, siccome non sono
disposto a cambiare le mie idee, resto un fesso”.
Ha sempre creduto in un mondo migliore, ma in un mondo migliore nato
dalla democrazia, dal rispetto verso il prossimo. Non riusciva ad
ammettere questa guerra americana:
“Tutto in questo scontro mi sembra artificioso ed irreale, tranne
gli effetti devastanti delle bombe sulle casupole di un popolo, colpevole
solo, di essere governato da una masnada di fanatici. A cominciare
dall’atto formale di dichiarazione di guerra che, com’è
nella prassi, deve essere consegnata nelle mani dei rappresentanti
ufficiali del paese nemico, prassi che, in questo specifico caso,
mi sembra non sia stata seguita. (...) Parlo di cose vissute e non
sentite dire, tralasciando di menzionare il genocidio di milioni di
individui per i quali la “civiltà occidentale”,
non ha mai versato una lacrima.”
Ultimamente, si irritava con l’appoggio illimitato dell’Italia
agli Stati Uniti:
“Per l’esattezza, dalla nascita dell’Italia repubblicana,
la nostra politica diplomatica nei confronti degli Stati Uniti, non
è stata solo “curvilinea”, ma prona. Spiace riconoscerlo,
ma il solo politico italiano che in tutti questi anni ha osato opporsi
allo strapotere statunitense è stato Bettino Craxi nel famoso
episodio di Sigonella, dove per poco non vi fu lo scontro a fuoco
tra ‘marines’ e carabinieri.”
Era innamorato dell’America Latina e, in special modo, del Brasile.
Cosí come il popolo brasiliano, depositava una grande speranza
nel governo Lula, tanto da scrivere:
“Lula può realizzare ciò che è stato sempre
detto del continente sudamericano, e cioè che era il continente
del futuro. Le vicissitudini di queste terre non hanno mai permesso
che questo sogno diventasse realtà. Forse questo è il
momento storico tanto aspettato dalle masse diseredate latino-americane
per diventare cittadini e non sudditi.”
Questo era il mio Professore Giuseppe D’Angelo, un Signore,
nel senso più ampio. Per parlare di lui sarebbero necessarie
molte pagine delle sue Memorie, che molti degli amici gli chiedevano.
Pagine per condividere con tutti noi le sue chiacchierate con Jorge
Amado, Giuseppe Ungaretti, Pablo Neruda, Alberto Moravia e, specialmente,
con i suoi “paesani”.
Sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Prima o poi – siamo
nelle mani di madre natura – i miei eroi se ne vanno. Perdiamo,
sicuramente, un articolista singolare. Siccome la natura umana è
egoista, non ammettiamo la sconfitta. Per Tonino non esistono sostituti.
Forse è stato il più grande collaboratore di Comunità.
Ma la sua lezione resterà per sempre in coloro che hanno cercato
di comprendere quest’uomo affascinante: amato e odiato, sorprendente
e ironico, legale e illegale, pratico ed emozionante, colto e rude,
solidario e combattivo, critico onesto e intelligente. A quest’uomo,
che provava un vero e proprio appetito per la vita, dedichiamo i nostri
omaggi.