Conoscere Visconti

Mauro Porru

Molte persone in Brasile hanno sentito parlare di Luchino Visconti, ma poche sanno quanto sia stata vasta la sua opera. La maggior parte ignora che si é occupato non solo di cinema, ma anche di teatro, di lirica, di danza e che in tutti questi campi ha creato dei veri e propri terremoti, introducendo nel mondo dello spettacolo italiano, all’epoca ancora ancorato a limitati schemi tradizionali e concezioni moraliste, repertori polemici, provocatori e perogressisti. Figlio del duca Giuseppe Visconti di Motrone e di Carla Erba, una delle donne più belle e eleganti della società milanese, nipote di Carlo Erba fondatore dell’ omonima industria farmaceutica, Luchino, nasce il 2 novenbre del 1906. Trascorre la sua infanzia e adolescenza in un’ atmosfera carica di cultura e di arte. Il padre è una persona molto colta e raffinata e la madre oltre alla ricchezza e ad un’ estrema forza di carattere possiede una grande sensibilità artistica, soprattutto musicale, ereditata dal padre Luigi Erba, esimio musicista e cognato di Giulio Ricordi, fondatore della Casa Musicale Ricordi. Fin da bambino, Visconti accompagna dal palco di famiglia gli spettacoli della Scala. Adolescente studia il violoncello; organizza e dirige spettacoli teatrali con gli amici. Quando il padre finanzia la “Compagnia d’ Arte” di Milano, il giovane Luchino diviene arredatore di alcuni spettacoli. Tuttavia, questa educazione ricca di stimoli creativi, è molto severa e provoca crisi di ribellione. E questo sentimento di indomabilità accompagnerà il regista per tutta la vita assumendo via via il carattere di anticonformismo, di coraggio civile e di provocazione intellettuale. A vent’ anni Visconti entra nella scuola di cavalleria di Pinerolo. Nasce così la sua passione per i cavalli e quando rientra a Milano diviene allevatore di cavalli di razza. In questo stesso periodo comincia a viaggiare molto. Si reca spesso a Parigi, attratto dall’ ambiente colto, stravagante e cosmopolita della città “lumière”, dove conosce Gide, Bernstein, Cocteau e la trasgressiva Coco Chanel. Nel ’36, a casa della Chanel, conosce Jean Renoir. L’incontro con il grande regista francese modifica radicalmente la sua vita. Diviene aiuto regista e costumista del film “Une partie de campagne” e tramite il gruppo di Renoir si avvicina al Partito Comunista Francese e al Fronte Popolare. Modifica le sue convinzioni politiche e comincia a mettere in discussione il suo modo di vivere aristocraticamente mondano. Nel ’38 visita gli studi cinematografici di Hollywood. L’ anno dopo vive il trauma doloroso della morte della madre alla quale è molto legato. Si trasferisce da Milano a Roma e accetta di collaborare alla stesura della sceneggiatura del nuovo film di Renoir che sarà girato a Roma, “La Tosca”. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale costringe Renoir a tornare a Parigi. Carl Kock, aiuto del regista francese, finisce il film con la collaborazione di Visconti. A casa di KocK Luchino conosce vari intellettuali antifascisti, tra cui Dario Puccini, Giuseppe De Santis, Barbaro, Alicata e Ingrao, collaboratori della rivista “Cinema” che, anche se controllata dal regime fascista, rappresenta velatamente una certa contestazione culturale. Con gli amici del gruppo “Cinema” Visconti elabora numerosi progetti, quasi tutti bloccati dalla censura. L’ unico che riesce ad essere realizzato è il libero adattamento del romanzo “The Posteman Always Rings Twice” di James Cain, che Renoir aveva proposto a Visconti nella sua versione francese. Nasce così “Ossessione”, il film che, negando radicalmente i generi tipici del cinema fascista getta le basi dell’estetica neorealista. Il film anche se non attacca direttamente il regime è sequestrato, mutilato e boicottato in tutti i modi. Durante la guerra e la Resistenza Visconti si impegna, insieme al gruppo “Cinema”, nella lotta politica. Entra in contatto con i partigiani, nasconde nella sua villa di Roma alcuni perseguitati politici e, dopo l’ 8 settembre, aiuta dei soldati alleati a sfuggire alla cattura. Arrestato perché in possesso di armi, viene condotto alla famigerata Pensione Jaccarino, famosa per i suoi torturatori. Dopo varie peripezie viene ricoverato nell’ospedale-carcere di San Gregorio dove rimane fino all’arrivo degli alleati. Dal ’45 al ’47 Visconti si dedica con grande entusiasmo all’ attività teatrale. Mette in scena: “I parenti terribili” e “La macchina da scrivere” di Jean Cocteau, la “Quinta colonna” di Ernest Hemingway, l’ “Antigone” e “Euridice” de Jean Anouilh, “A porte chiuse” de Jean Paul Sartre, “Adamo” di Marcel Achard, “La via del tabacco” di Jhon Kirkland, “Il matrimonio di Figaro” di Beaumarchais, “Delitto e castigo” di Dostoevski e “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams. Modifica radicalmente la maniera di far teatro in Italia: sceglie testi polemici di autori contemporanei francesi e americani che parlano di sordidi conflitti familiari, di drammi politici e civili, di omosessualità, di esseri umani alla deriva, di profonde inquietudini esistenziali e realizza opere classiche come quelle di Beaumarchais e di Dostoevski, in modo totalmente anticonformista. Nel novembre del 1947 gira il suo secondo lungometraggio, “La terra trema”, tratto dal romanzo “I Malavoglia” di Giovanni Verga. Girato in un paesino siciliano, Acitrezza, interpretato da pescatori che parlano nel loro dialetto, questo film, che scandalizzerà gli spettatori del Festival di Venezia del ’48 per la radicale rappresentazione della realtà popolare, è considerato a tutt’oggi, una delle opere più rilevanti della storia del cinema italiano per la chiarezza del suo messaggio e la forza del suo stile. Qualche mese dopo, Visconti scandalizza di nuovo il pubblico con la polemica messa in scena di “Rosalinda o Come vi piace” di Shakespeare, accusato, questa volta, di aver teatralizzato oltre misura la realtà, ricorrendo a um eccessivo formalismo sottolineato dalle scenografie e dai costumi creati da Salvador Dalì. In seguito mette in scena “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams, l’ “Oreste” di Vittorio Alfieri, “Troilo e Cressida” di William Shakespeare, “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, una seconda versione di “Un tram che si chiama desiderio” e “Il seduttore” de Diego Fabbri. Torna al cinema, nel ’51, con “Bellissima” interpretato da Anna Magnani. Nel ’52 Visconti si dedica esclusivamente al teatro e realizza “La locandiera” di Carlo Goldoni e l’ indimenticabile allestimento di “Le tre sorelle” di Cechov. Nel ’53 lavora di nuovo con Anna Magnani girando un episodio del film “Siamo donne”, sulla smitizzazione dell’immagine della “diva”. Lo stesso anno, gira “Senso”, in cui, con estrema abilità, riesce a conciliare il senso della realtà con il gusto per tutto ciò che si trova ai confini tra la vita e il teatro. Dal ’54 al 57' si dedica all’ allestimento di opere liriche e teatrali. Modificando significativamente i canoni melodrammatici, mette in scena cinque spettacoli con Maria Callas: “La vestale”, “La sonnambula”, “La traviata”, “Anna Bolena”, “Efigenia in Tauride” e in teatro: “Come le foglie” di Giacosa, “Il crogiuolo” di Miller, “Zio Vania” di Cechov, “Contessina Giulia” di Srindberg, “L’ impresario di Smirne” di Goldoni. Nel ’57 torna al cinema con “Le notti bianche”. Un film a basso costo, tratto dall’omonimo racconto di Dostoevskij, girato interamente nel Teatro 5 di Cinecittà, con il quale Visconti vuole proporre un nuovo tipo di cinema che superi il neo-relismo ormai degradato. Un cinema che contrapponga alla “verità” fisica del realismo del dopoguerra, la “verità” onirica che si trova tra la realtà e la fantasia. Alle “Le notti bianche”, fanno seguito due anni di intensa attività teatrale. Ventidue giorni dopo la prima proiezione della sua quinta opera cinematografica, che vince il “Leone d’argento” al Festival di Venezia del ’57, Visconti presenta sulle scene della “Städtische Oper” di Berlino Ovest, “Maratona di danza”, il secondo balletto da lui creato e diretto. Nel ’56 il regista milanese si era già cimentato in questo genere artistico, allestendo lo spettacolo di danza “Mario e il mago”, basato sul racconto omonimo di Thomas Mann e musicato da Franco Mannino, di cui aveva scritto il libretto e creato le scenografie. Quanto al teatro di prosa, mette in scena: “Uno sguardo dal ponte” di Miller, “Immagini e tempi di Eleonora Duse”, “Veglia la mia casa, Angelo” di Ketti Frings, “Deux sur la balançoire” di William Gibson, “I ragazzi della signora Gibbons” di Will Glickman e Joseph Stein, “Figli d’arte” di Diego Fabbri. Nel ’58 allestisce le opere liriche “Don Carlos” e “Macbeth” di Verdi e “Il duca d’Alba” di Donizetti. “Rocco e i suoi fratelli”, girato nel ‘60, rappresenta il ritorno di Visconti al cinema sociale, a quel cinema “antropomorfico” da lui un tempo tanto caldamente difeso. Esasperato dagli attacchi censori a “Rocco”, ostacolato dalla giunta comunale di Milano e boicottato al Festival di Venezia, Visconti si trasferisce a Parigi dove monta il dramma di John Ford “Peccato che sia una puttana”. Rientrato in Italia, allestisce una polemica versione dell’opera lirica di Richard Strauss, “Salomé”. Nel ’62, accetta di partecipare a un film a episodi, “Boccaccio 70”, che si propone di satirizzare il moralismo e la “prouderie”, con l’episodio “Il lavoro”, tratto liberamente dalla novella di Guy de Maupassant, “Au bord du lit”. Nel ’63, gira “Il Gattopardo”, un adattamento per il cinema dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Per altri due anni Visconti si dedica esclusivamente al teatro. Allestisce al festival di Spoleto del ’63 una “Traviata” di Verdi e “Il tredicesimo albero” di André Gide. In seguito mette in scena un’ edizione di “Le nozze di Figaro” di Mozart e due edizioni de “Il trovatore”, una presentata a Mosca e l’altra a Londra. Nel ’65 gira il suo ottavo lungometraggio “Vaghe stelle dell’Orsa”. Un’opera volutamente più modesta rispetto alle dimensioni della precedente, ma riguardante lo stesso tema della memoria. Con “Vaghe stelle dell’Orsa” Visconti vince finalmente, al festival di Venezia, quel “Leone d’ oro” che gli era stato ingiustamente negato per “La terra trema”, “Senso” e “Rocco e i suoi fratelli”. Nello stesso anno festeggia a Roma vent’anni di attività teatrale con l’ ultimo, indimenticabile allestimento de “Il giardino dei ciliegi” di Cechov e mette in scena a Parigi “Après la chute” di Miller. Nel campo della lirica, realizza la sua seconda edizione del “Don Carlos”, seguita nel ’66 dal “Falstaff” di Verdi e dal “Der Rosenkavalier” di Strauss. Nel ’67 partecipa al film a episodi “Le streghe”, prodotto da Dino de Laurentiis per dare all’ attrice Silvana Mangano l’ occasione di mostrare le sue doti di recitazione in una serie di ritratti diversi, in differenti contesti drammatici. Con l’episodio “La strega bruciata viva”, il regista trasforma, con straordinaria abilità, la storia banale di un’ attrice cinematografica stanca di esser considerata una donna-oggetto, in un testo filmico di grande tensione drammatica. Nello stesso anno gira “Lo straniero”, tratto dall’omonimo romanzo di Camus. Dopo altri due anni in cui si dedica esclusivamente al teatro, mettendo in scena “Egmont” di Goethe e “La monaca do Monza” di Testori, la terza edizione della “Traviata” e il “Simon Boccanegra” di Verdi, nel ’69 Luchino Visconti si dedica alle riprese de “La caduta degli dei”. Un film in cui la tragica ascesa del nazismo in Germania si rispecchia nel dramma di una ricca e potente famiglia di industriali. Personaggi, fatti, luoghi, ambienti si fondono in un unico racconto e devengono elementi rivelatori della complessa situazione economico-politico-sociale di un decennio di storia europea. Il sovvertimeto delle regole morali e della giustizia, avvenuto in quegli anni in nome della supremazia della forza e dell’odio, del disprezzo e della propotenza, viene rivelato con ricchezza di dettagli illuminanti in sequenze crude e rivoltanti, ricche di sensazioni forti e di momenti altamente drammatici. A “La caduta degli dei” segue, nel ’71, “Morte a Venezia”, basato sul breve romanzo “La morte a Venezia” di Thomas Mann. Il conflitto tra cuore e ragione, elemento fondamentale di tutta la filmografia viscontiana, è presente anche in quest’ opera assumendo i toni di una timorosa consapevolezza del declino di un mondo al quale non resta che assistere melanconicamente alla propria fine. Nel ’72 gira “Ludwig”, la storia del re di Baviera, che riassume in sé tutte le manifestazioni dell’ estetismo “fin-de-siècle”. Pur rappresentando l’ incontro più eccessivo di Visconti con la cultura decadentista, il film può esser considerato una delle sue opere più sincere e affascinanti. Nel luglio dello stesso anno, alla fine delle riprese di “Ludwig”, il regista è colpito da una trombosi che gli paralizza il braccio e la gamba sinistra. Nonostante la gravità della malattia reagisce e durante la convalescenza si occupa del montaggio del film e pensa a nuovi progetti. Alla fine del ’73 comincia a lavorare a un nuovo lungometraggio: : Gruppo di famiglia in un interno”. Basato su un’ idea di Enrico Medioli che si adatta perfettamente ai temi prediletti di Visconti e al suo stato di salute, il film sottolinea l’ irriducibile contrasto - a tutti i livelli: psicologico, morale, culturale, intellettuale, ecc. - tra un vecchio professore collezionista di “conversation piece” (ritratti di gruppi familiari) e una famiglia di nuovi-ricchi che invade la sua “privacy”, coinvolgendolo poco a poco in una rete di intrighi, falsità e vizi. Lo stesso anno mette in scena il suo ultimo spettacolo di prosa “Tanto tempo fa” di Harold Pinter, che, come era avvenuto per il suo primo allestimento teatrale, scandalizza il pubblico e crea violente polemiche per la rappresentazione eccessivamente aggressiva di un dramma intimo, esistenziale che invece di essere sussurato veniva gridato, denunciando l’incessante necessità del regista di indagare sempre più profondamente l’animo umano, i conflitti esistenziali e i legami interpersonali. Un mese dopo la prima del dramma di Pinter, Visconti presenta a Spoleto la sua ultima, e forse più bella, regia di un’opera lirica: una “Manon Lescaut” profondamente drammatica, interpretata, come raccomandava Puccini, “non con le ciprie e i minuetti”, ma “con passione disperata” Nell’aprile del ’75, nonostante l’aggravarsi della malattia, dovuto ad una banale caduta, Luchino Visconti conclude, insieme ai suoi fedeli collaboratori Suso Cecchi d’Amico e Enrico Medioli, la riduzione cinematografica del romanzo dannunziano “L’innocente” e gira il suo ultimo film completamente immobilizzato su una sedia a rotelle. Alla fine delle riprese le sue condizioni peggiorano molto. Muore il 17 marzo 1976, quando “L’ innocente” è in fase di montaggio, senza perdere fino alla fine la sua estrema voglia di affrontare tutto, di fare tutto, perché, come lui stesso ha dichiarato in un’intervista del ’74:
“... bisogna sempre bruciare di passione, quando si affronta qualcosa. E d’altronde siamo qui per questo: per bruciare finché la morte, che è l’ultimo atto della vita, non completi l’operazione trasformandoci in cenere”.

 


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