Remo Bodei:
nel labirinto dell'identità personale
Por Carlo Bertolozzi
La filosofia della
religione (o "delle religioni" secondo la dizione oggi più
diffusa e seguita) è una disciplina affermatasi soltanto da
poco tempo, in forma stabile, nelle università italiane. Le
sedi che per prime hanno istituito questo insegnamento sono state
Urbino (con Italo Mancini), Roma (con Marco M. Olivetti) e Torino
(con Giuseppe Riconda) sul finire degli anni sessanta. Una figura,
poi, da ricordare è senz’altro quella di Albino Babolin,
promotore e presidente dal 1976, presso l’università
di Perugia, di un Centro internazionale di studi di filosofia della
religione.
Dal 1995 l’insegnamento
di filosofia delle religioni è presente anche nell’università
di Pisa ed è tenuto da Adriano Fabris, che si segnala, attualmente,
come uno degli interpreti più interessanti e innovativi in
questo settore. Una delle attenzioni costanti di Fabris, che si può
cogliere già nel suo scritto di esordio in questo settore Introduzione
alla filosofia della religione, consiste nel mantenere con estrema
chiarezza e lucidità lo specifico, il proprium della filosofia
della religione rispetto ai molti altri possibili approcci alla sfera
religiosa (scienze delle religioni, storia delle religioni, sociologia
delle religioni, psicologia delle religioni e così via).
Lo specifico della
filosofia nei confronti della dimensione religiosa consiste, osserva
Fabris, nel saper porre questioni, nel problematizzare tale particolare
esperienza (nel senso letterale di "problema", che è
il "gettare davanti agli occhi", "sottoporre all’attenzione"
– appunto proballein): ci si può, ad esempio, chiedere
quali "sfere di significato" siano proprie del linguaggio
religioso (è un linguaggio simbolico? evocativo? invocante?
è qualcosa di intermedio tra questi livelli? è altro
ancora?) oppure quale relazione si possa stabilire tra credere e pensare,
cioè tra fede e sapere o, ancora, quali siano i topoi, i luoghi
ricorrenti, i temi ineludibili del discorso religioso (ad esempio,
il sacro, il rito, la comunità, la codifi cazione della prassi
con tutte le diffi coltà che sono implicite nel tentare di
defi nire, anche sommariamente, termini così pregnanti e complessi).Insomma,
la fi losofi a della religione, fa notare Fabris, è capacità
critica di formulare domande sul fatto religioso, individuando costantemente
nuovi livelli e percorsi del domandare e dell’interrogare. E’,
invece, da superare, nel modo più assoluto, l’in fluente
modello hegeliano secondo il quale la filosofia rappresenterebbe la
piena, dispiegata, "adulta" maturità del pensiero
mentre la religione costituirebbe un semplice "momento"
nella vita dello spirito ancora involuto, immediato, che dovrebbe
esser conosciuto nella sua "essenza" per esser, poi, superato
da/in un sapere più adeguato.
La religione, secondo
una sensibilità e una prospettivaermeneutica più adeguata
ed avvertita, dev’essere, al contrario, percepita come una "forma
di vita", come una "prospettiva sul mondo": come tale,
essa risulta legata ad un tentativo di conferimento di senso alle
cose o, se vogliamo, di elaborazione di un "orizzonte di significato"
entro il quale collocare e interpretare la vita nelle sue molteplici
manifestazioni e sfaccettature. Di fronte alle varie "forme di
vita credente" (così potrebbero essere defi nite le religioni)
la filosofia è chiamata a porsi in atteggiamento interrogante,
è invitata ad "imparare a domandare" restando però
autenticamente se stessa, senza cedere, per usare un’immagine
di Fabris, alla facile mossa del "varcare la soglia" ma
rimanendo, invece, "sulla soglia", cioè su quel sottile
crinale che divide l’interrogare filosofico dall’esperire
religioso.
In Tre domande
su Dio Fabris osserva che "davanti alla questione Dio ci troviamo,
di fatto, "sulla soglia", siamo cioè sempre di fronte
all’ipotesi-Dio e posti in una condizione che ci sollecita ad
una interrogazione continua, rigorosa, condotta su molteplici livelli
senza che siano possibili, e neppure auspicabili, soluzioni o sistemazioni
conclusive dell’intera questione, includendo fratali facili
soluzioni anche quelle escogitate dal pensiero metafi sico con le
sue astratte e inservibili "dimostrazioni" dell’esistenza
di Dio o della sua giustizia/ giustificabilità di fronte al
mistero inquietante del male. Nella tradizione filosofica occidentale
è spesso emersa, osserva Fabris, "la convinzione che la
questione Dio possa essere davvero posta o decisa, in un modo o nell’altro,
sul terreno della ragione.[…] Nasce però il sospetto,
di fronte a questi tentativi, che l’intento apologetico, dal
quale essi sembrano pervasi, resti solamente in superfi cie e che
ben altre invece siano le esigenze a cui rispondono. Si potrebbe addirittura
pensare che il riferimento a Dio, nel caso delle diverse prove della
sua esistenza, altro non sia che una specie di ‘messa in scena’
dettata dall’astuzia della ragione, che per questa via tenderebbe
in realtà a legittimarsi e ad affermare se stessa. In altre
parole, nei diversi percorsi della teologia filosofica, la ragione
non risulterebbe affatto disposta a istituire uno spazio per l’eventuale
manifestazione del divino, bensì tenderebbe piuttosto ad occupare
a sua volta questo spazio con lo scopo, certo non dichiarato, ma non
per questo meno decisamente perseguito, di mettere in trono se stessa
come dio. In ogni caso, anche se tale sospetto non risultasse fondato,
resta però il dato di fatto della radicale differenza fra il
Dio che può essere affermato mediante il discorso filosofico
e il Dio a cui tende invece l’atteggiamento religioso".
Ci si deve anche liberare
ormai, senza timore che ciò possa rappresentare una perdita
o un vuoto, dell’immagine di Dio come elemento da chiamare in
soccorso delle nostre limitate capacità esplicative, del "Dio-tappabuchi"
per usare una nota immagine del teologo evangelico Dietrich Bonhoeffer.
In effetti, il rischio di ridurre Dio ad una tranquillizzante risposta
perle varie domande umane è sempre presente: l’autentica
esperienza religiosa, invece, pur caratterizzandosi come un orizzonte
di senso condiviso e trasmesso, presenta però, al proprio interno,
anche "lacune", "vuoti", "zone d’ombra",
cioè tutto ciò che, nel linguaggio religioso, si indica
solitamente come "mistero" o ambito dell’ineffabile,
come nel caso del male e del tragico.
La stessa pretesa umana
di fi ssare una volta per tutte, in modo univoco ed universalmente
valido, il volto, l’identità, l’essenza di Dio
deve scontrarsi, rileva Fabris, e ciò è del tutto positivo,
con il fatto dei molteplici volti di Dio consegnati all’uomo
dalle diverse tradizioni religiose. Dio, insomma, è, e rimane,
il Dio dai molteplici nomi, nessuno dei quali può bastare da
solo ad esaurirne, ad evidenziarne, a coglierne la specifica natura
e identità. Come già rilevava il pagano Simmaco, uno
itinere non potest perveniri ad tam magnum secretum. Ciò
evidenzia la necessità e, potremmo aggiungere, l’irrinunciabilità
della pratica del dialogo interreligioso, inteso come "disponibilità
ad entrare in rapporto, a non sottrarsi al confronto [sviluppando
una] reciprocità che non annulla affatto le possibili differenze
da cui si parte". Il dialogo, poi, mette in evidenza "uno
dei caratteri di fondo dell’essere umano: il fatto cioè
che la sua specifi ca relazionalità risulta costitutivamente
mediata dal linguaggio, da una parola che risulta sempre condivisa
e che dischiude un ambito comune di convivenza". Il dialogo,
in ambito religioso e non solo, si caratterizza anche come sfida della
comunicazione, come ineludibile luogo di mediazione, di scambio, di
condivisione, di reciprocità. Come annota Fabris nel recente
Etica della comunicazione interculturale: "bisogna ripensare
il legame tra la pretesa di universalità che è propria
di ogni religione e il radicamento nella particolarità da cui
ciascuna è caratterizzata:Bisogna insomma, in altre parole
tenere assieme l’unità del principio e la molteplicità
che s’incarna nel reale e nella storia: senza con ciò
negare che la molteplicità possa essere adeguata espressione
dell’Uno e senza del pari dissolvere l’Uno nel gioco di
specchi dei mille punti di vista relativi. Il che signifi ca, una
volta di più che è necessario sperimentare il dialogo,
che bisogna accogliere la sfida della comunicazione".
Ciò conduce
anche, come possibile ulteriore questione, al problema della ve rità
in rapporto alle religioni: in che senso, cioè, una religione
può dirsi o reputarsi "vera"? come può un
particolare credo porsi nei confronti di un’analoga pretesa
di verità da parte delle altre fedi? A giudizio di Fabris,
la questione può ricevere una chiarifi cazione modificando
il tradizionale signifi cato di verità, che è quello
di uno stato di cose ben definito, inconfutabile, indiscutibile, giungendo,
al contrario, ad interpretare la verità come un "render
vero", cioè realizzare, confermare dinamicamente e concretamente
nella prassi la propria prospettiva di fede. Come scrive Fabris in
Paradossi del senso: "il particolare signifi cato di verità
che emerge è quello per cui il testimone, proprio nell’atto
della sua testimonianza, produce la messa in opera di ciò che
testimonia, lo rende vero, ne realizza l’autenticità,
lo ‘verifi ca’ con le sue parole e con la propria vita.
La verità, considerata in tal senso, non è allora né
un oggetto né un processo, ma è invece, ed esclusivamente,
un atto. Si tratta di quell’atto che, nel suo compiersi, non
s’impone affatto, insensatamente, ma piuttosto si espone".
Anche nella tradizione cristiana, e in particolare nel lessico del
vangelo di Giovanni, è presente con forza il tema del "fare
la verità" (cioè realizzarla, renderla carne e
prassi) e risulta, invece, del tutto estraneo il riferimento alla
verità come astratta teoria o sistema da imporre e su cui speculare
in modo vuoto e retorico.
Le religioni, perciò,
come risulta evidente, sono costitutivamente collegate alla prassi,
alla vita, al mondo e hanno esattamente su questo versante il loro
proprio terreno di verifica, di incontro, di condivisione possibile
di percorsi comuni: "se si assume questa prospettiva", conclude
Fabris in Etica della comunicazione interculturale, "allora la
fede degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani – solo per rimanere
legati alle tre religioni monoteistiche principali - , pur radicandosi
certamente nella vita concreta di queste genti, non risulta più
l’espressione di una prospettiva particolare che vuole imporsi
al mondo in astratto e con ogni mezzo, ma rimanda invece a quella
pluralità di compiti che gli uomini, nelle loro inevitabili
diversità, sono dal loro Dio chiamati ad attuare. Il Dio che
in tal modo si rivela può risultare davvero, in quest’ottica,un
Dio condiviso. E su questo terreno, più in generale, gli uomini
tutti, che aderiscano oppure no ad una prospettiva religiosa, possono
davvero trovarsi a collaborare per costruire la pace".