Gianni Vattino:
ermeneutica, post-metafisica e pensiero debole
Por Angelo Vannuci
Gianni Vattimo è,
insieme a Luigi Pareyson, quello che nell’ambito della fi losofi
a italiana contemporanea ha contribuito maggiormente agli sviluppi
dell’ermeneutica, che lo vede protagonista insieme a Gadamer,
Ricoeur e Derrida. In particolare Gadamer e Heidegger sono i suoi
due punti di riferimento in questo ambito, come Nietzsche e Lyotard
lo sono per quel che concerne la decostruzione della prospettiva ontologica
e della fine della metafi sica, che si sviluppa nell’elaborazione
del pensiero post-metafisico e del “pensiero debole”.
L’ermeneutica
come filosofia, della quale Vattimo si preoccupa di salvaguardare
la valenza, viene riconosciuta come avente due tratti fondamentali:
quello ontologico, il cui referente concettuale è il senso
dell’essere, e quello linguistico. La dimensione linguistica
è centrale nella misura in cui il linguaggio è la mediazione
tra l’esistenza e il mondo, e conseguentemente il pensiero assume
il linguaggio nella sua fi nitezza e storicità e non nelle
categorie definitive e aprioristiche. In altri termini il senso degli
eventi è inquadrato in contesti linguistici defi niti, variabili,
mutevoli e storicamente determinati: in tal senso l’ermeneutica
diventa una sorta di koinè, di “idioma comune della cultura
occidentale” in generale. La valenza filosofica dell’ermeneutica
è duplice: una è la pretesa metafi sica di essere una
descrizione assoluta e vera della struttura interpretativa dell’esistenza
umana, e che in quanto tale è convinta di cogliere l’oggettività
dell’essere; l’altra è alternativa alla prima ed
è quella che Vattimo fa propria, e cioè l’ermeneutica
come la “risposta ad una storia dell’essere interpretata
come accadere del nichilismo”.
Il passaggio obbligato
è la nietzscheana “morte di Dio” intesa ovviamente
come “fine della metafi sica”, come fine cioè tutte
le certezze e l’abdicazione del pensiero, del cogito, che aveva
sempre pensato di poter approdare ad esiti ultimativi e dunque definitivi.
Concepita in tal modo l’ermeneutica diventa l’interpretazione
più attendibile, diventa cioè la filosofia che interpreta
la modernità e la contemporaneità.
E’ questo passaggio
che conduce Vattimo a pervenire alla postmetafisica e ad elaborare
il “pensiero debole”. Tuttavia è opportuno, per
chiarezza, fare riferimento al concetto di postmoderno così
come è stato concepito da Lyotard, proprio perché
Vattimo identifi ca il postmoderno con l”età postmetafi
sica”. Il filosofo francese, che conia il termine in ambito
filosofico in un saggio del 1979, La condizione postmoderna, parte
dal presupposto che la modernità sia finita e ciò per
molteplici ragioni: storico-sociali (l’olocausto, gli avvenimenti
nell’Est sovietizzato, le crisi economico-finanziarie del ‘900),
teconologiche (mass media e informatizzazione) e culturali (la fine
delle “grandi narrazioni”). Se il postmoderno non è
un dopo, ma è uno stato del sentire e del pensare, quelli che
Lyotard chiama i “grandi racconti” della modernità
sono del tutto delegittimati perché hanno pensato la storia
in termini di progresso che si dirige verso una meta prefi ssata.
Illuminismo, idealismo, marxismo, cristianesimo, capitalismo hanno
preteso (o se si vuole, teso) ad una spiegazione unitaria, universale,
assoluta della realtà, partendo da un’idea universale
che si sarebbe potuta concretizzare in un futuro più o meno
vicino, e tutti hanno fallito. E la conclusione è che la valenza
totalitaria e totalizzante della ragione è messa in discussione
e dunque la razionalità si deve muovere nel breve periodo e
mirarea legittimazioni parziali, reversibili, non assolute. Vattimo
dà un enorme valore filosofico al postmoderno. E’ finita
la concezione della storia come corso unitario e progressivo di eventi
ed è tramontata defi nitivamente l’idea che ciò
che è nuovo è di necessità ciò che è
migliore. La globalizzazione comunicativa ha avuto, tra gli altri,
l’effetto della configurazione di una pluralità di linguaggi,
di idee, di valori, di concezioni del mondo e della vita, ma ciò
non è un fatto negativo, anzi è proprio l’antidoto
alla omologazione delle coscienze e l’uso dei mass media apre
prospettive di consapevolezza delle diversità, delle culture
“altre” e quindi del rispetto e della tolleranza, e di
presa di coscienza del tramonto di una storia (e di una civiltà
e umanità) centralizzata e occidentalizzata.
Il passaggio dal moderno al postmoderno si defi nisce filosoficamente
per Vattimo nel passaggio dal pensiero “forte” , che è
quello metafi sico, al pensiero “debole”, quello posmetafi
sico, un concetto che Vattimo elabora con Pier Aldo Rovatti nel 1983.
Egli per pensiero forte intende un pensiero che parla in nome della
verità, dell’unità e della totalità, con
la pretesa di fornire una fondazione del sapere e dell’agire
assoluta per cercare una visione esaustiva e globale, tale da non
poter essere messa in discussione. Per pensiero debole intende un
pensiero e una filosofia che rinunciano a qualsiasi ambizione o pretesa
fondazionale, un pensiero che è depotenziato rispetto alla
tradizionale inquadratura ontologica della filosofia occidentale,
che rifi uta le categorie forti, ultime, defi nitive, omnicomprensive.
E da questo punto di vista il pensiero debole è in maniera
decisa una forma di nichilismo, che è la condizione specifica
dell’uomo dell’età postmoderna. Vattimo considera
il nichilismo una “parola chiave della nostra cultura, una sorta
di destino del quale non possiamo liberarci senza privarci di aspetti
fondamentali della nostra spiritualità”. Bisogna innanzitutto
sgomberare il campo da equivoci: il temine nichilismo non è
usato in senso dispregiativo e negativo, bensì in senso positivo
e costruttivo, così come pure va interpretato il pensiero debole.
Il nichilismo, come ne aveva argomentato Nietzsche che, in questo
senso, è un precursore del postmoderno (così come Heideger),
è una condizione in cui l’uomo postmoderno viene a trovarsi
quando fondamenti, certezze e verità stabili sono caduti e
non si tratta di combatterlo e di vederlo come un nemico, ma di assumerlo
come nostra unica possibilità, di “convivere con il niente”,
il che signifi ca imparare a vivere “senza nevrosi in una situazione
in cui non ci sono garanzie e certezze assolute”; anzi, aggiunge
il filosofo, “oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti,
ma perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché
non sappiamo vivere fino in fondo l’esperienza della dissoluzione
dell’essere”, e questo perché siamo come “malati”,
nostalgici delle certezze perdute. Il nichilismo interamente vissuto
e assorbito dall’uomo non è dunque un nichilismo nostalgico,
per cui gli uomini vivono tragicamente la loro esistenza, terrorizzati
dal crollo delle certezze assolute; né siamo di fronte ad un
nichilismo forte che cerca di ricostruire un nuovo assoluto sulle
macerie di una metafisica destrutturata; quello vattimiano è
un nichilismo debole, leggero, la leggerezza dell’essere di
cui parla Kundera, che è la leggerezza del nulla, un nichilismo
che non rimpiange le certezze ataviche né anela spasmodicamente
a costruirne altre; ma c’è di più perché
per Vattimo “la razionalità, al proprio interno, deve
depotenziarsi, cedere terreno, non avere timore di indietreggiare
verso la zona d’ombra”. Richiamandosi in questo caso ad
Heidegger, Vattimo sostiene che l’esperienza da cui la filosofia
deve prendere le mosse e a cui deve rimanere fedele “è
quella dell’innanzi tutto e per lo più quotidiano, che
è anche sempre storicamente qualifi cata, culturalmente densa”.
Ecco che il discorso ritorna all’annuncio della “morte
di Dio”, dove tutti gli assoluti metafi sici sono crollati,
a partire dal “soggetto”, articolazione che egli mutua
naturalmente da Nietzsche; mentre da Heidegger riprende la tesi secondo
cui l’essere non è, ma accade, nel senso anche della
caducità, ossia la condizione epocale dell’essere. Di
conseguen za questa ontologia epocale implica una temporalizzazione
dell’essere, vale a dire un suo indebolimento. In altri termini,
la debolezza è lo stato in cui si trova il pensiero di fronte
al carattere ermeneutico della verità legata alle molteplici
interpretazioni possibili e fonda un nuovo modo non violento di accedere
alla realtà e all’etica con differenze e pluralità.
Indebolimento dell’essere, fine della metafi sica, nichilismo
compiuto: questo rappresenta l’orizzonte dell’uomo postmoderno.
Tuttavia, nel defi
nire e articolare il rapporto fra moderno e postmoderno, Vattimo ricorre
alla Verwindung heideggeriana, cioè alla nozione di distorsione,
perché noi non possiamo prescindere dalle categorie della metafi
sica e il suo apparato concettuale è indispensabile, nella
necessità di stabilire l’atteggiamento postmetafisico
col passato: non possiamo non usare le categorie della metafisica
e del passato, se non distorcendole in senso debole e postmetafisico,
ossia nichilistico. All’idea di Verwindung si connette quella,
ancora heideggeriana, di Andenken, rimemorazione. Non si tratta ancora
una volta di guardare nostalgicamente indietro, ma di quella pietas
di derivazione latina e specifi catamente virgiliana, di rispetto,
amore e legame che comunque abbiamo con il passato: un legame che
possiamo distorcere, appunto, non già farlo sparire e annullare.
Così leggiamo nella Storia della filosofia fondata da Abbagnano,
da cui risultano chiari i contorni dell’uomo postmoderno:
“L’individuo
post-istorico e post-moderno è colui che dopo essere passato
attraverso la fine delle grandi sintesi unifi canti e attraverso la
dissoluzione del pensiero metafi sico tradizionale riesce a vivere
‘senza nevrosi’ in un mondo in cui Dio è nietzscheanamente
morto, ossia in un mondo in cui non ci sono più strutture fisse
e garantite capaci di fornire una fondazione ‘unica, ultima,
normativa’ alla nostra conoscenza e alla nostra azione. In altri
termini, l’individuo postmoderno è colui che non avendo
più bisogno ‘della rassicurazione estrema, di tipo magico,
che era fornita dall’idea di Dio’, ha accettato il nichilismo
come chance destinale ed ha imparato a vivere senza ansie nel mondo
relativo delle ‘mezze verità’, con la raggiunta
consapevolezza che l’ideale di una certezza assoluta, di un
sapere totalmente fondato e di un mondo come sistema razionale compiuto
è solo un ‘mito rassicurativo proprio di un’umanità
ancora primitiva e barbara’. Un mito, su badi bene, che non
è affatto qualcosa di ‘naturale’, bensì
di ‘culturale’, ovvero di storicamente acquisito e tramandato.
In sintesi, l’individuo postmoderno è colui che avendo
assunto fino in fondo la condizione ‘debole’ dell’essere
e dell’esistenza ha imparato a convivere con se stesso e con
la propria finitu dine(=infondatezza), al di là di ogni residua
nostalgia per gli assoluti trascendenti o immanenti della metafisica”.
In anni più
recenti Vattimo ha concentrato il pensiero debole sugli aspetti etici,
nel senso che è proprio l’etica il discrimine tra l’uomo
moderno e quello postmoderno. Più specificatamente, ribadendo
i caratteri di tolleranza e di non violenza del pensiero debole, è
giunto a farne una sorta di secolarizzazione dell’etica cristiana
della carità: ne nasce una connessine tra ontologia debole,
non violenza ed eredità cristiana.
Bio-bibliografia. Gianni
Vattimo(Torino 1936), ha studiato con Luigi Pareyson e Hans-Georg
Gadamer, di cui ha tradotto in italiano Verità e metodo; ha
seguito ad Heidelberg i corsi dello stesso Gadamer e di Karl Loewith.
Dal 1964 insegna all’Università di Torino, è stato
“visiting professor” in diverse università americane,
ha diretto la “Rivista di Estetica”. Impegnato in politica,
prima nel Partito Radicale, poi nei DS per i quali nel 1999 è
stato eletto deputato al Parlamento di Strasburgo; poi in polemica
con i DS si è dimesso dal Partito e si è avvicinato
a quello dei Comunisti Italiani.
Opere principali: Il
concetto di fare in Aristotele (1961), Essere, storia e linguaggio
in Heidegger (1963), Poesia e ontologia e Ipotesi su Nietzsche (1967),
Schleiermacher, fi losofo dell’interpretazione (1968), Introduzione
ad Heidegger (1971), Il soggetto e la maschera (1974), Le avventure
della differenza (1980), Al di là del soggetto (1981), Il pensiero
debole (1983, curato insieme a Pier Aldo Rovatti), Introduzione a
Nietzsche (1984), La fine della modernità (1985), La società
trasparente (1989), Etica dell’interpretazione (1989), Filosofi
a al presente (1990), Oltre l’interpretazione (1994), Credere
di credere (1996), Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000 (2000),
Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (2002),
Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto (2003), Il futuro
della religione. Carità, ironia, solidarietà (in dialogo
con Richard Rorty, 2005).