Haroldo de Campos.
ILÍADA, I, 1-14
Luciana Stegagno
Picchio
Cantami o Diva del divino Achille l’ira
funesta». La traduzione di Vincenzo Monti del primo canto dell’Iliade
risuona negli orecchi di tutti gli italiani che abbiano frequentato
il liceo negli anni andati, così come risuonava ancora negli
orecchi dei brasiliani contemporanei di Haroldo de Campos la traduzio-
ne ottocentesca di Odorico Mendes, tanto duramente condannata da Sílvio
Romero e riscattata, negli anni ’60 del secolo scorso, da un
Haroldo che in quel tempo andava sperimentando la sua teoria della
traduzione come trascreazione o traduzione creativa. Si trattava,
nella sua formulazione, di un modo di tradurre «che si preoccupava
eminentemente della ricostituzione in portoghese dell’informazione
estetica dell’originale, non facendo dunque proprio il semplice
scopo didattico d’ausilio alla lettura dello stesso originale.
Ho l’impressione che Haroldo de Campos (1929-2003), uno dei
poeti e dei critici più rappresentativi della letteratura brasiliana
del secolo XX, ispiratore, insieme al fratello Augusto e all’amico
Décio Pignatari, del movimento della poesia concreta, sarà
ricordato in futuro soprattutto come teorico della traduzione e grande
traduttore. Ha tradotto Dante, i trovatori provenzali, Mallarmé,
Majakovskij, Joyce, Pound e, sulla sua scia, i poeti cinesi e giapponesi
antichi e contemporanei, ma ha tradotto anche il biblico Qohelet.
Nel corso di una decade estremamente produttiva e purtroppo terminale
della sua vita, periodo della durata della guerra di Trioa, si è
infi ne dedicato, anima e corpo, alla “trasellenizzazione”di
tutta l’Iliade di Omero. Il primo canto della impresa magna,
questa Ira de Aquiles, che nel 1979 aveva tentato anche un poeta italiano
quale Salvatore Quasimodo, era già uscito presso la casa editrice
Nova Alexandria di San Paolo nel 1994. Con la sua scelta dell’alessandrino
(l’unico metro in grado di consentire una concordanza verso
per verso con l’originale, ossia di ottenere in portoghese lo
stesso numero di versi del testo greco, al contrario del decasillabo
camoniano, che più di una volta aveva co stretto Odorico a
«prodigi di compressione semantica e contorsione sintattica»),
Haroldo dimostrava la sua capacità poetica di produrre nelle
sue versioni testi capaci di affermarsi come originali autonomi par
droit de conquête. Ma c’era qui anche un’inaspettata
“fe-
deltà” all’originale, testimonianza dell’estremo
rispetto del poeta nei confronti della “rapsodia” omerica,
oltre ché del suo lungo studio a fi anco di un maestro-allievo
come Trajano Vieira. Nella continua esitazione tra il suono e il senso,
che costituisce l’essenza della poesia, all’inizio, quando
nonpensava ancora di tradurre tutto il poema, il traduttore aveva
cercato solamente di ricreare la forma dell’espressione e la
forma del contenuto del Canto I dell’Iliade.
Attento alle paronomasie, allitterazioni e onomatopee, cercando persino
di recuperare etimologie, aveva desiderato «costituire unicamente
un modello intensivo, un paradigma attuale e attuante di trascreazione
omerica». E il risultato fu, nella terra di Guimarães
Rosa, questo miracolo di invenzione del vocabolo che è la sua
Iliade. Il «Peleio Aquiles», del canto I,1, il «divino
Aquiles» del canto I,7, era diventato nel canto I,241-42, «Aquiles,
Dor do Povo», in una decifrazione etimologica che passò
a funzionare da auto-
epiteto, emblema del personaggio. Quante altre invenzioni, ricreazioni,
frutto del lavoro di Haroldo incontriamo nel corso dei due volumi
(2001 e 2002) di questa eccezionale Iliade brasiliana che, come voleva
un Sousândrade rivisitato dai fratelli Campos, venne «abrindo
ao oriente a homérea rodo-
dáctila Aurora»?