Manoel de Oliveira
e José Régio: un cinema fra letteratura e teatro
Andrea Santurbano
Poco praticato dal grande pubblico,
in un’epo ca di dilagante massimalismo nelle offerte culturali,
il maestro portoghese Manoel de Oliveira, decano del cinema mondiale
per meriti artistici e ragioni anagrafi che, rappresenta una cerniera,
per citare il titolo di uno dei suoi fi lm, fra “passato e presente”.
Basti pensare che il passaggio dal muto al sonoro e dal bianco e nero
al colore lo trovava già all’opera dietro ad una macchina
da presa. Il Leone d’oro alla carriera conferitogli alla Mostra
del cinema di Venezia 2004 appare dunque un doveroso riconoscimento,
nonché un ulteriore tributo da parte di un paese, l’Italia,
primo ad apprezzarne l’opera sin dagli anni ’60, quando
l’an cora esigua produzione del regista comprendeva soprattutto
dei cortometraggi.
La fi lmografi a più recente di de Oliveira, che conta oggi
quasi trenta lungometraggi, tende in prevalenza al recupero di una
memoria personale e collettiva: a fi lm di carattere marcatamente
intimistico, come Viagem ao Princípio do Mundo (Viaggio all’inizio
del mondo, 1997) e Porto da Minha Infância (2001), si affi ancano
rivisitazioni storiche, quali Palavra e Utopia (Parole e utopia, 2000),
incentrato sulla poliedrica figura del padre gesuita António
Vieira, e Um Filme Falado (2003), epitome storico-culturale della
civiltà mediterranea. È tuttavia l’impalcatura
letteraria, mai accantonata neppure in quest’ultimo periodo,
come dimostrano A carta (La lettera, 1999) e O Princípio da
Incerteza (Il principio dell’incertezza, 2001), a costituire
il
marchio distintivo del cinema di de Oliveira. Se i cardini vanno rintracciati
in un vasto corpus di autori del panorama europeo, da Madame de la
Fayette, Nietzsche, Claudel, Beckett, ai portoghesi António
Vieira, Camilo
Castelo Branco, Agustina Bessa-Luís, Vicente Sanches, il fi
l rouge che ne
tesse idealmente una straordinaria e, per certi versi, insospettabile
unità te-
matica è rappresentato da José Régio. In maniera
emblematica, anche il fi lm
presentato in anteprima mondiale a Venezia, O Quinto Império
– Ontem
como Hoje (2004), quasi un punto di confl uenza tra i due fi loni
cui si è fatto cenno, è tratto da un’opera teatrale
di Régio, El-Rei Sebastião (1949), sul mito lusitano
del sovrano “encoberto”.
Poeta, scrittore, saggista, drammaturgo, nato a Vila do Conde, nei
pressi di Porto, nel 1901 e ivi morto nel 1969, Régio fu prima
stimatissimo amico e “mentore” di de Oliveira, poi fonte
di trasposizioni e ispiratore indiretto di molte altre pellicole del
cineasta. Egli si rese protagonista, non sempre o non ancora riconosciuto
appieno nella sua valenza, di un’intera stagione culturale in
Portogallo, passata sotto l’ansia catalogatrice della manualistica
letteraria col nome di Secondo modernismo. A José Régio,
autore multiforme, va altresì ascritto il grande merito di
aver contribuito a diffondere in Portogallo un inte-
resse ragionato e diffuso per la settima arte; a lui si deve infatti
un tentativo di sistematizzazione della critica cinematografica, operato
prima dalle pagine della rivista letteraria presença (56 numeri
usciti dal 1927 al 1940), di cui fu tra i fondatori, poi attraverso
le collaborazioni con vari quotidiani portoghesi. Uno degli elementi
fondanti delle sue rifl essioni teoriche s’imperniava sulla
critica alla logica massifi cante delle grandi produzioni cinematografi
che, aspetto che lo accomuna al primo studioso italiano di cinema,
Ricciotto Canudo. Scrive Régio: “La maggioranza degli
spettatori non cerca emozioni artistiche. Cerca eccitazioni più
o meno grossolane, e passatempi più o meno confacenti alla
sua mediocrità”. Proprio nei suoi interventi si possono
rintracciare i prodromi del futuro cinema portoghese d’autore,
sbocciato negli anni ’60 con la cosiddetta fase del Cinema novo;
e proprio dalla sua penna scaturirono le più entusiastiche
recensioni all’opera prima di Manoel de Oliveira, il cortometraggio
di stam-
po avanguardistico Douro, Faina Fluvial (1931). Questo è anche
il periodo del primo incontro e dell’inizio della frequentazione
intellettuale tra i due autori, consolidatasi con il ritorno via via
defi nitivo del regista al cinema, a parti-
re dalla fi ne degli anni ‘50.
Anche de Oliveira, come Régio, è un credente eterodosso,
per seguire la defi nizione di padre João Marques, eminente
studioso, presidente del “Centro de Estudos Regianos”
e in molte occasioni collaboratore del cineasta. Entrambi cattolici
per educazione familiare e formazione scolastica, trovano nella religione
un ulteriore strumento d’indagine, ben lungi però dall’essere
risolutivo; ciò che a loro interessa non è l’aspetto
liturgico, ed appunto ortodosso, quanto il mistero metafi sico della
trascendenza, della
creazione e della provvidenza divine. Se l’approccio conoscitivo
di Régio
nei confronti delle tematiche storico religiose è di natura
più intellettuale,
quello di de Oliveira è più intuitivo; entrambi, comunque,
restano uomini
del dubbio, spinti dall’istinto e inappagati nelle loro convinzioni.
La tra-
dizione giudaico-cristiana e la cultura greco-latina (paradigmaticamente
al
centro del citato Um Filme Falado) si stagliano come sfondo dell’irrisolta
confl ittualità insita nell’uomo, sospesa tra la tentacolare
illusorietà del mon-
do e l’anelito alla trascendenza. Una fi tta ragnatela di convenzioni
sociali e
religiose può irretire, distorcere e infine distogliere il
pensiero umano dalla
ricerca sul senso ontologico della sua esistenza; senza questo schermo
pro-
tettivo, tuttavia, l’uomo piomba nel buio dell’incertezza,
rischia di perder-
si in un labirinto senza coordinate di riferimento. Il tentativo d’indagine
sul-
la specifi cità individuale del “propriocaso”,
ancorché partecipe di un desti-
no collettivo, è allora la grande unità tematica che
lega il cinema di de Oli-
veira alla letteratura di Régio.
Prima di accennare nello specifico agli adattamenti deoliveiriani
che
grande e dichiarata infl uenza traggo no dall’opera e dal pensiero
di Régio,
vale la pena far breve riferimento ad alcune trasmigrazioni tematiche
tra
opere non direttamente ricollegabi li. Le antinomie bene/male, spirito/
corpo, intuito/ragione del poeta autore di Poemas de Deus e do Diabo
(Poesie di Dio e del diavolo, raccolta in versi edita nel 1925), si
confrontano
per esempio nella produzione del regista lusitano col gioco esplicitamente
faustiano di O Convento (Il convento, 1995), basato sulla tensione
di coppie
speculari. Nella pièce regiana As Três Máscaras
(Le tre maschere, fantasia
drammatica in un atto del 1957) si confi gura nella fi gura di Pierrot,
con-
trapposto al suo mefi stofelico rivale, il tema dell’”amore
frustrato”, tanto
per richiamarsi alla famosa tetralogia fi lmica deoliveiriana. L’attrazione
verso l’altro sesso rappresenta quindi l’altra grande
isotopia comune ai due
autori, cioè la seduzione della carne e la relativa carica
sensuale e sessuale
sottesa nelle loro opere. L’Ema bovariana del fi lm Vale Abraão
(La valle del peccato, 1993) traduce sullo schermo un percorso intertestuale
condotto da Agustina Bessa-Luís, autrice su esplicita richiesta
di de Oliveira dell’omoni-
mo libro che riambienta nell’attualità portoghese della
valle del Douro la Madame Bovary di Flaubert. Ma già la fi
gura inquieta di Maria Clara, tra le protagoniste del ciclo romanzesco
A Velha Casa di Régio (ed è bene ricor-
dare che questi apprezzava molto Flaubert, così come la scrittrice
continua ad ammirare Régio) sembra catalizzare in questa scena
civettuola le polarità espressive di romanzo e film:
Muoveva al contempo la testa con moine delicate e cortigiane, nascon-
deva metà del viso dietro al ventaglio, facendo gli occhi teneri,
o lo agitava sul seno palpitante a bella posta. Dal momento che le
aveva dato del lavoroprepararsi così bene, il suo cruccio era
di non potersi vedere in uno specchio grande, a fi gura intera. Poi
sollevò un poco la gonna a balze, mostrando le scarpine di
fi li di raso, scoprendo anche un po’ della gamba… e provò
alcuni passi di danze antiche, come aveva visto in un fi lm di Vila
do Conde.
Sono otto le pellicole scaturite in forma più immediata dal
sodalizio artistico tra i due autori: Benilde ou a Virgem Mãe
(1975), Mon Cas (1986), A
Divina Comédia (1991) e il già citato O Quinto Império
sono trasposizioni di opere regiane; il cortometraggio As Pinturas
do Meu Irmão Júlio (1958) e Acto da Primavera (1963)
costituiscono il frutto di collaborazioni dirette; O Passado e o Presente
(1971) e Os Canibais (1988), pur tratte da autori diversi, sono infl
uenzate in maniera decisiva da Régio. Con lo scrittore ancora
in vita, sono dunque due i lavori realizzati: As Pinturas do Meu Irmão
Júlio, proiettato per la prima volta al Festival di Bergamo
nel 1965, che rimanda nella prima persona del titolo (“Le pitture
di mio fratello Júlio”) allo stesso Régio (sua
la voce-off), il cui fratello era appunto valente artista espressionista;
e Acto da Primavera, curiosa commistione di documentario e fi ction
di una rappresentazione popolare della passione di Cristo, messa in
scena dagli abitanti di un villaggio portoghese, fi lm in cui Régio
risulta invece consulente per l’adattamento. Nello stesso periodo
vanno annoverati altri progetti di collaborazione fra i due, purtroppo
mai realizzati per una serie di circostanze sfavorevoli. Dopo una
nuova pausa, de Oliveira torna defi nitivamente al cinema all’inizio
degli anni ‘70 e lo fa con un ciclo di trasposizioni dal teatro
e dalla letteratura imperniato sulla fi gura di José Régio:
si tratta della famosa “tetralogia degli amori frustrati”.
Benilde ou a Virgem Mãe in particolare adatta in maniera rigorosa
e letterale, preservandone l’integrità testuale e la
fedeltà ermeneutica, un omonimo dramma regiano in tre atti,
rappresentato per la prima volta a teatro nel 1947; nella mimesi dell’opera
si condensano il mistero della trascendenza, la problematica re-lazione
tra scienza e religione, ragione e fede, intelletto e follia mistico-visionaria.
O Passado e o Presente, primo fi lm della tetralogia, tratto invece
da una commedia di Vicente Sanches, era stato concepito per reazione
alla stati cità di ripresa di Acto da Primavera: ne era venuto
fuori un fi lm movimentato, con un grande ricorso al montaggio, un
film, in pratica, che massimizzava il divario spazio-temporale col
dispositivo teatrale. All’inizio anche Benilde doveva seguire
quest’impostazione più convenzionale, ma poi qualcosa
si modifi cò nelle rifl essioni critico-estetiche di de Oliveira.
Sono infatti di questo periodo le sue famose dichiarazioni che la
vita di per sé non esiste, è inconoscibile, perché
sequenza di istanti che trascorrono mentre hanno luogo: è il
teatro a rivelare la vita, e il cinema, che registra il teatro, a
fi ssarla. La transizione ottenuta fa del cinema la rappresentazione
vera ed effettiva della vita, rendendolo al contempo esistente solo
in funzione del teatro, ma un teatro inteso nell’accezione più
ampia di tutto ciò che si mette in posa davanti ad una cinepresa.
Per altri versi, il cinema di de Oliveira non è realistico
in senso mimetico, è realtà stessa che si sta rappresentando
in quel preciso momento, attraverso la mediazione del teatro. Teatro
– che è bene ribadire – non si- gnifi ca qui fi
lmare tout-court la messa in scena di una pièce (come poteva
avvenire nel cinema delle origini), ben- sì disporre “teatralmente”
gli elementi in un set, prediligere la camera fi ssa, il campo medio
o lungo e il piano-se-quenza, svelare spesso l’artifi cio cinematografi
co insinuandosi tra le quinte (come avviene in Benilde) o nello spazio
della sala (come avviene in Mon Cas). La teatralità quale resa
visibile dell’artifi cio si confi gura allora come processo
cosciente e antitetico al preteso realismo di opere che, annullando
qualsiasi barriera tra fi ction e spettatore, e neutralizzando così
la distanza critica dello stesso, replicano condizioni “naturali”
del tutto inverosimili.
La tetralogia è completata da Amor de Perdição
(1978), dal romanzo otto-
centesco di Camilo Castelo Branco, eda Francisca (1981), adattamento
del Fanny Owen di Agustina Bessa-Luís, opera documentale che
parla del-
lo stesso Castelo Branco. Ma è pur sempre sulla fi gura di
José Régio che s’impernia l’intera serie
di fi lm, la cui genesi è, per ammissione dello stesso cineasta,
dovuta agli stimoli e ai gusti letterari suggeritigli dall’amico
poeta. Il fi lo conduttore dell’intera tetralogia riguarda storie
d’amore che non riesco-
no mai a vedersi compiutamente realizzate, a causa delle molteplici
“frustrazioni” cui sono soggetti gli amanti: il culto
della necrofi lia che vince sui vivi in O Passado e o Presente, l’amore
spirituale-religioso che vince sul carnale in Benilde, l’amore
vittima di convenzioni sociali e di rivalità dinastiche in
Amor de Perdição e l’amore asservi to al vizio
delle passioni in Francisca.
Le vicende si concludono al cospetto del mistero della morte, ma quello
che sembra più interessare de Oliveira è il mistero
della vita; in essa confl uiscono infatti tutti i sensi di colpa atavici
della tradizione giudai cocristiana, che ingenerano la paura del peccato
e infi ttiscono di inibizioni, prevenzioni e sospetti il tessuto relazionale
dei personaggi. Ciò che ne scaturisce è la fragilità
umana, caratterizzata dall’impossibilità di legami e
amori assoluti; neanche la sfera della sessualità riesce mai
a liberarsi da questa frustrazione indotta. Sostanzialmente si delinea
negli “amori frustrati” un motivo riconducibile al mito
della perdita del “paradiso originale” e, di conseguenza,
a una sorta di saudade per quella simbiosi primigenia scissasi antinomicamente:
da qui, l’unità perduta tra uomo e donna e l’irriducibilità
delle loro incomprensioni. Manoel de Oliveira, parimenti a quanto
fa José Régio nella sua produzione teatrale e letteraria,
consegna al cinema la sua continua interrogazione sul senso ontologico
del vivere; quindi, la relazione vita-arte si riveste di nuove implicazioni
che non possono più risolversi nel rapporto di contiguità
mimetico di riproducibilità o di reinterpretazione del reale
da parte del dispositivo filmico.