O Ouro
de Sevilha ovvero lanello che non tiene
Eugenia Maria Galeffi
e Sergio Romanelli
Finalmente il Brasile
si pregia della traduzione di Silverdale (Palermo, Edizioni della
Battaglia, 2000), il primo libro di racconti del professor Francesco
Marroni, preside della Facoltà di Lettere dellUniversità
Gabriele DAnnunzio di Pescara e professore di Lingua
e Letteratura Inglese alla stessa università. Autore di svariati
saggi di critica letteraria e noto specialista di letteratura vittoriana,
il professor Marroni da buon osservatore del carattere umano, con
questo libro, realizza il suo più intimo desiderio: dar vita
a personaggi già sognati un tempo.
La sua vena artistica si fa sentire man mano ci si addentra nella
lettura. Il cesellatore va modellando la sua scultura con una precisione
da indagatore attento ai minimi dettagli, senza tralasciare nulla.
Egli penetra nel mondo che descrive come se appartenesse davvero ad
esso.
Prendendo indebita-mente in prestito uno splendido verso di Eugenio
Montale, si potrebbe dire che i diversi protagonisti dei sette racconti
stiano, coscientemente o no, in attesa di trovare lanello
che non tiene nel gran meccanismo un po consunto della
vita. Dalle colline morbide del Chester al colore enigmatico delle
chiese di Siviglia fino allinesorabile scorrere del Tago, i
personaggi cercano nel silenzio, paradossalmente, lunica parola
ancora non pronunciata, quella capace di ridar linfa a gesti e relazioni
ormai sfilacciati e artificiali. Così Mrs. Preston, in Silverdale,
scrive lettere false fingendo di essere Elizabeth Gaskell, forse per
dare alla vita di questultima ed alla sua un nuovo ordine, più
umano ed anche più originale. Più originale della vita
sterile e falsa del mondo accademico ed intellettuale, protagonisti
in negativo di questi racconti. Quel mondo accademico colpevole di
non saper ergersi a baluardo della cultura che unica potrebbe contrastare
la debolezza dei rapporti umani. Marroni riesce così nel difficile
compito di fare critica sociale narrando. Con lo sguardo distaccato
e un po deluso Francesco, il protagonista del primo racconto,
si chiede se non sia meglio non credere alle cose umane,
a questi uomini e donne così bravi nel complicare il
disegno della loro esistenza e se non sarebbe meglio non
mettere radici nel terreno fertile dellumana debolezza
scegliendo il silenzio: vero denomina-tore comune a tutti i racconti
insieme alla parola scritta, unica testimone di questa scelta. Lo
stesso silenzio che Paolo Laredo in O castelo de São Jorge
preferisce alla banalità di una conversazione senza futuro.
Se la realtà è sempre diversa dalle parole, come dice
la sua momentanea compagna di viaggio, perché usare i nomi?
Meglio sedersi anonimi ad osservare il Tago, come fa Paco, il barbone
che da anni non parla con anima viva. Dietro ad un linguaggio volutamente
un po troppo formale, che vuol rispecchiare la rigidità
del mondo accademico, percepiamo la durezza della vita forzare le
sillabe di queste storie di quotidiana incompren-sione: quella fra
Paolo Laredo e la moglie, quella fra Giorgio e Nell ed infine quella
fra Anatolij e il mondo intero. Il giovane ed eccentrico ricercatore
russo contrappone allimmobilità delluniverso accademico
la sua mobilità fisica ed intellettuale. Come le parole, tutto
è instabile e non si può cristallizzare la felicità.
Lanello che non tiene è per Anatoli la sua
dignità e per George, lintimità sottintesa con
Eduard. Linquietudine dei protagonisti è un po
la stessa che accompagna il lettore, entrambi cittadini della contemporaneità,
in cerca di quel centro ordinatore del mondo che non esiste e che
Charles Norton chiede disperatamente ad Elizabeth, la Gaskell del
primo racconto e Liz dellultimo. Il senso antiorario dato dallautore
al tempo dei due racconti, conferma limpossibilità di
dare un ordine a ciò che non lo ha. Lautore sceglie quindi
di iniziare dalla fine, raccontando delle sei lettere inedite della
Gaskell, alimentando così il mistero intorno allidentità
dellautrice inglese, fino a rivelarne la vera storia solo nellultimo
racconto. Disseminando indizi lungo tutto il libro, con degli spunti
degni di uno Sherlock Holmes, egli coinvolge sempre più il
lettore in un gioco ad incastro.
È proprio la scrittura di Marroni il maggior pregio di questo
libro. La sua capacità di svelarci sommessamente e gradualmente,
nascosta dietro a storie apparentemente comuni, la disillusione delluomo
di cultura e di rendere universali riferimenti chiaramente autobiografici.
LIo narrante, i personaggi ed il lettore, come gli eteronimi
di Fernando Pessoa, si ritrovano loro malgrado ad attendere nella
pluralità della loro solitudine, la Rivelazione, il manifestarsi
della parola originaria che il pensiero ed il linguaggio, sua realizzazione
materiale, hanno definitivamente offuscato.