Il parlato-scritto nella poesia di Dacia Maraini

Flávia A. Alves Muniz

Nei nostri giorni, sebbene l’unificazione linguistica, raggiuntasi dopo la radio, le due guerre, due avvanguardie e parecchie rotture, la riflessione e ripresa del valore dei dialetti, la televisione e più recentemente l’avvento dell’Internet – che a sua volta sembra aver portato alle ultime conseguenze la rottura dei limiti fra il parlato e lo scritto in qualsiasi lingua – una nuova questione si introduce: nel confronto tra il parlato e lo scritto in lingua italiana, come stanno attenuandosi i limiti tra l’uno e l’altro pure in letteratura?
Renato Barilli1 osserva che per Dante l’unificazione linguistica dovrebbe esser fatta dagli scrittori (dagli “intellettuali” come si direbbe oggi), i quali sarebbero capaci di trarre di ogni lingua e dialetto il fior da fiore. Per il Manzoni invece, la lingua essendo uno strumento d’uso, vivo e sempre attuale, non dovrebbe esser ristretta all’ambito dell’elite letteraria. Anzi, quasi si potrebbe dire che la sua preoccupazione fosse appunto come far che diventasse letterario quello che era di uso, cioè di uso vivo e comune, quindi si trattava di “andare alla ricerca dell’esistente, di un patrimonio di tutti” (Barilli, 1997, p. 67).
Eridi di questa proposta, gli scrittori della generazione del 1840 , cercarono di mettere in pratica l’insegnamento manzoniano, che cioè “non si doveva imporre nulla dall’alto ma occorresse muoversi a livello di usi accertati, nascenti dal basso”. La generazione dei veristi e dei regionalisti, sentì la necessità di “cimentarsi con l’ambito dei dialetti”. Questo vale per Luigi Capuana (nato nel 1839), Giovanni Verga (1840) e Antonio Fogazzaro (1842).
Comportandosi come autentici continuatori della linea manzoniana, Pirandello e Svevo svolsero con la loro scrittura una funzione didattica e promozionale che non permetteva delle oscurità espressive.
La Neoavanguardia degli anni Cinquanta – che influenzò scrittori e scrittrici, e un po’più tardi Dacia Maraini (1936) – ebbe tra le sue proposte anche quella di inserire il discorso sulla questione linguistica. In ciò che riguarda alla scrittura delle donne, Biancamaria Frabotta affermò nel 1977 (l’anno della pubblicazione dell’antologia Donne in poesia) che la poesia femminile era finora “nei confronti della poesia tout court, quella universale, quella linguis-ticamente determinata da pochi per tutti”2 . Dacia Maraini, in nota critica all’antologia sopracitata afferma che “saranno le donne a decidere come vogliono scrivere, man mano che si impossesseranno degli strumenti dell’espressione...”3 .
Dunque, se consideriamo che le donne-scrittrici anzitutto donne italiane, oltre il pluralismo linguistico in cui sono immerse fin dalla lor nascita, devono confrontarsi pure con il sessismo linguistico e poi anche quello letterario, allora quale varietà linguistica da cui esse potrebbero servirsi per comporre i lor testi, cioè senza quelle “oscurità espressive” come intendeva il Manzoni e come riuscirono a fare Pirandello e Svevo e, più che mai, senza le vecchie metafore imbrattando il discorso di queste donne-scrittrici e che spesso le fanno incapaci di dire veramente col cervello sulle dita?4 Inoltre, come cercare oppure affermare per le scrittrici appunto in letteratura, malgrado l’ortodossia del canone letterario, una... “loro” varietà linguistica, anche se sappiamo che le parole non hanno sesso, ma nel senso di cui si parla di un italiano degli uomini e delle donne5 ?
E se gli scrittori italiani sentirono la necessità di farsi capire, cosa si può dire delle donne-scrittrici, se il loro affermarsi come scrittrici richiedeva innanzi tutto la loro affermazione come donne in una società basatasi sulla loro soggezione e sul loro silenzio, a scapito del dominio imposto dalla cultura male, soprattutto durante il Fascismo, e in un paese dove si parlavano delle decine di lingue le cui parole esse sentivano che infatti non erano mai state loro?
L’opera Crudeltà all’aria aperta di Dacia Maraini è emblematica di questa ansia femminile di rompere il silenzio, siccome della ricerca - dalle donne - per affermare il lor discorso nella società. Nei poemi, il discorso si presenta di modo confuso, intricato come se alla ricerca della parola ideale, precisa che, intanto, non viene o non si trova (forse perché non se ne abbia infatti il possesso). Spesso i poemi manifestano un tentativo di riscatto dell’ uso della parola dalla voce femminile attraverso un confronto con la supremazia paterna.
E sebbene i testi suggeriscano spesso un dialogo, infatti tutto risulta in un vero e proprio monologo, lo che dimostra che in un mondo culturale predominantemente maschile – che si riflette nei testi attraverso i rapporti familiari, dove il padre dovrebbe esser l’inter-locutore, e intanto diventa proprio l’argomento dello sfogo – quindi nell’ambito in cui impera il Maschile , se sono le donne a proporre il dialogo (“vorrei che tu e io, padre mio...”, ‘‘dunque, senti, cerchiamo di ricordare insieme... vedi ”), esse spesso non sono davvero sentite ( e tu dov’eri?).
E quindi, nell’opera si può trovare delle caratteristiche del parlato6 come: monologo; conversazione/discussione; bassa coesione testuale (spesso si dà nel piano della coerenza); pause ed esitazioni; ridondanza e ripetizioni; segnali discorsivi (“ecco”, “dunque, senti...”; “e, ma...”); incompletezza delle frasi e spezzetamento del periodo; le unità informative testuali con organizzazione ad incastro e con perdita del filo centrale del discorso; mutamento di soggetti tematici tra altre.
Era un desiderio di Manzoni che per l’unificazione linguistica si facesse attenzio-ne alla preminenza all’uso comune e al parlato sullo scritto, alle occasioni lin-guistiche della vita di tutti i giorni. Pensandoci e pensando pure che nei nostri giorni l’ipotesi dell’unificazione linguistica abbia vinto, cioè finalmente si è giunto ad un italiano di uso medio, funzionale (Barilli, 1997, p. 74), ci sembra ovvio che pure le scrittrici svolgessero un discorso letterario più accessibile. Con il superamento della questione della lingua si è avuto il recupero esplicito di tratti del parlato nello scritto, e lo studio di testi più vicini alla realizzazione orale ha permesso documentare l’uso concretto del parlato (Coveri,1998, p. 245).
Per tutto quello che abbiamo detto è rilevante ancora dimostrare che lo stile adottato dalla Maraini, proprio nel genere più accostato alla tradizione, cioè la poesia, rivella innanzi tutto un’adesione più radicale al proggetto manzoniano, e inoltre una forte influenza della Neoavanguardia degli anni Cinquanta. E in ciò che riguarda ad una scrittura di donna, adottando nel testo letterario una particolare varietà del parlato, cioè il parlato-scritto, la scrittrice riesce a mettere in discussione tra altre cose, l’affermazione del discorso femminile e sotto due aspetti cioè: tra le tante varietà dell’italiano, quale di cui possono servirsi le scrittrici nei lor testi in maniera a arricchirne la comunicabilità ed accessibilità verso i lettori/lettrici e di conseguenza, l’acquista del riconoscimento e del valore delle loro opere appunto come integranti del patrimonio linguistico, letterario e culturale italiano.

 


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