Ritratto di Gina
Magnavia
Sergio Campailla
Parlare di Gina Magnavita al passato mi è particolarmente
doloroso; è come coprire,
da ragazzi, che nella vita esiste la morte, e affrontare il trauma
che ne consegue.
Naturalmente, non è così, è una scoperta che
ho maturato, ahimè, da molto tempo.
E allora, questa sensazione, inquietante e penosa, deriva dal fatto
che la fi gura di
questa donna era importante nello spazio della mia mente. Se avessi
dovuto indicare
una creatura immortale – esagero, si intende, ma alludo a un’esigenza
ideale, a
un’aspirazione inconscia – la scelta probabilmente sarebbe
caduta su di lei.
L’ho incontrata la prima volta all’aeroporto di Salvador
da Bahia. Mi venne incontro a braccetto del marito, Romano Galeffi
. Dedicarono, a me e a mia moglie, un’accoglienza calda, informale,
come se fossimo due familiari. Mi conoscevano attraverso la lettura
del mio romanzo Il paradiso terrestre. Io non avevo un’idea
precisa della loro identità, per la verità sapevo soltanto
che erano i genitori di Eugenia Galeffi, una deliziosa studiosa di
civiltà italiana che mi aveva invitato in Brasile. Tra
l’altro, a prima vista, sembravano molto diversi tra loro, con
due personalità esotiche; e cercavo di valutare, nella stanchezza
del lungo viaggio, quanto potessi affi darmi alla loro cortesia.
Ho capito ben presto che non avrei potuto capitare in mani migliori.
A ripensarci adesso, che sono scomparsi l’uno e l’altra,
potrei dire che all’aeroporto di Salvador da Bahia erano venuti
a prendermi sotto la loro protezione, camuffati sotto false spoglie,
due angeli. Due angeli brasiliani, che però erano originari
dell’Italia, avevano nostalgia dell’Italia, amore per
l’Italia.
Romano era un professore universitario, un docente di fi losofi a,
un appassionato
di estetica. Animato da un idealismo incredibile, fedele al crocianesimo
della sua formazione giovanile. Ma con innesti molteplici e irregolari.
Mi fece omaggio dei suoi libri, mi donò commosso una copia
di La Grande Sintesi di Pietro Ubaldi, un’opera quasi sconosciuta
da noi, ma che lui considerava meravigliosa e rivelativa. Voleva
dunque coinvolgermi e rivelarmi le cose fondamentali che aveva appreso
nel
corso della sua particolare esperienza, nel suo passaggio dalla cultura
europea
a quella sudamericana.
Era soprattutto un uomo buono, protetto dallo scudo della sua bontà.
Se fosse stato analfabeta, non sarebbe cambiato o poco niente. Invece
era colto, ingenuo, e pretendeva che il mondo dovesse andare meglio,
e si esasperava perché questa palingenesi tardava ad avvenire.
Ma la donna era al centro, rappresentava il centro, era indispensabile
a tutti. Al marito, alla famiglia, al vasto giro che ruotava attorno
a lei. Raramente ho conosciuto una personalità carismatica
come donna Gina Magnavita. Veramente grande vita e grande anima.
Per farla diventare così, c’erano volute la Calabria,
l’educazione presso un Istituto religioso romano, la vita in
Brasile, un nugolo di fi gli e di figlie, quel marito. Insomma, ciascuno
è quello che diventa, per un concorso di circostanze e di fattori,
ma Gina
- quando l’ho conosciuta io - non aveva bisogno di niente, nel
senso che non aveva niente da chiedere, mentre era disposta a dare,
a tutti, come una fontana ricca di acqua fresca, in uno zampillo inesauribile.
Era colta, una professoressa universitaria anche lei, scriveva poesie
improvvisando, a tavola, durante una conversazione, in treno, ovunque.
Era un’eredità della sua formazione umanistica e classica,
ma anche una piega di una sapienza, nonostante tutto, orale. Era come
una cantastorie che mitizza la cronaca, perché sa che la
cronaca è già mito, se se ne scorge il signifi cato,
il valore simbolico, la nota musicale dell’ora preziosa in fuga.
Era colta e materna, una grande madre, nella tradizione del Meridione
italiano ma potenziata e miscelata fantasticamente da quella brasiliana.
Da quella prima volta, ho avuto modo di conoscerla a fondo, in Brasile
e in Italia. In Brasile era una specie di totem vivente. Ambasciatrice
della cultura e della lingua italiana, fondatrice insieme
a Romano, della Dante Alighieri di Salvador da Bahia, presidente di
una favela, era una fi gura in qualche modo religiosa, riverita e
indiscussa, per il suo potere e la sua misericordia. Tra i poteri,
si compiaceva di avere quello dell’intuizione,e persino della
profezia. Confessarsi con donna Gina era come confi darsi con la luna
e le stelle, lei non negava conforto a nessuno, previsioni rassicuranti:
ogni cosa, con la volontà
di Dio, si sarebbe aggiustata, sarebbe andata nel senso desiderato.
Il fatto è che la sua statua non aveva spigoli, si era messa
in sintonia - per quanto umanamente possibile - con i segreti della
creazione, sentiva a distanza, con naturalezza, con forza tranquilla.
Sorrideva sempre, con quel suo sorriso amabile e un po’ furbo,
da ragazzina invecchiata ma in sostanza rimasta giovane. La quale
dunque non si stancava mai, era sempre fresca dopo le fatiche più
protratte, serviva da esempio per gli altri, che invece erano distrutti
dal lavoro, dal caldo, dalle avversità. Era anche
un po’ narcisista, ma quel tanto che valeva a perfezionare la
sua fascinazione, il suo piacere della vita e del rapporto sociale.
In Italia era, al confronto, in apparenza, fuori del suo ambiente.
Ma fui impressionato quando una volta, a Roma, ci incontrammo mentre
riceveva visite di bambini bambine che aveva fatto adottare dal Brasile.
Bambini e bambine, che erano diventati adulti, ex meninos de rua che
avevano ormai famiglie italiane e europee, che venivano con i loro
cani e i loro gatti, che dovevano ripartire, che erano bruni o mulatti
con madre adottiva bionda ecc. Venivano a riverire donna Gina, che
aveva cambiato la vita
a tutti, di gran lunga in meglio, che li amava uno per uno nella loro
differenza, che manteneva con loro un rapporto nel tempo, come dimostravano
quelle visite, a formare una grande famiglia, multietnica, colorata
e felice, almeno nel legame con
la grande e unica madre. A Salvador da Bahia donna Gina non si accontentava
della famiglia propria, numerosissima, composta da personaggi uno
per uno notevoli, non soltanto in senso professionale; con il dolce
consorte, teneva una culla in camera da letto, per accogliere i bambini
abbandonati per strada, abbandonati davanti alla casa dei Galeffi
, ospitale come una chiesa.
Dovrei aggiungere tante cose, e ovviamente – perché il
ritratto non fosse troppo provvisorio e deludente per me – ricordare
le cose più signifi cative, legate alle vicende private, a
singoli episodi, all’infl essione di una voce, al pensiero di
un compleanno, che lei mai dimenticava di festeggiare, da lontano,
da amica, da regina.
Tra l’altro essendo nata lo stesso giorno di Silvana, mia moglie,
quella ricorrenza acquistava il valore simbolico di una complicità,
di un legame astrologico. Il prossimo compleanno, non sarà
più così. Ed è proprio vero, come dice Pirandello
a proposito della madre: quando muoiono le persone care, non muoiono
le persone care, le persone fatate, non muore donna Gina, siamo noi
che ci accorgiamo di essere vissuti nel privilegio del loro amore.