L'epopea della emigrazione veneta
Giovanni
Meo Zilio
1. Brasile venetofono
e condizioni generali della prima emigrazione
La
prima emigrazione organizzata in partenza dal Veneto (in buona parte
dalla provincia di Treviso e, in minor misura, dalla Lombardia e dal
Friuli, risale al 1875. Infatti a partire da quellanno cominciarono
ad arrivare in Brasile - negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina,
Paranà, Espirito Santo, e soprattutto nella cosiddetta zona
di colonizzazione italiana ubicata nel Nordest del primo stato,
che oggi ha per centro economico, commerciale e culturale la fiorente
città di Caxias do Sul con circa 500.000 abitanti: miracolo
di sviluppo e modello di un altro veneto trapiantato e
cresciuto oltre oceano. Ad esso vanno aggiunte altre correnti emigratorie,
soprattutto in Argentina e Uruguay, dove molti italiani erano già
presenti da prima, e, in minor misura, in minor paesi come il Messico.
Le cause principali del
fenomeno emigratorio furono, comè noto, la miseria e
lemarginazione delle classi rurali dellepoca, se non addirittura
la fame, insieme al sogno della proprietà della terra da parte
dei nostri contadini (allora veri servi della gleba),
spesso ingannati da fallaci propagande interessate, favorite, a loro
volta, dallignoranza commista alla speranza che è sempre
lultima a morire. Ma va tenuto conto anche di quellinsop-primibile
spirito di avventura, quellattrazione verso il nuovo e il lontano
che da sempre ha agito sullumanità e che spesso viene
trascurato dagli storici dellemigrazione.
La traversata atlantica
in quellepoca (nel fondo delle stive) fu da sola una epopea
che ancora è presente nella memoria collettiva, tramandata
in episodi struggenti nei ricordi dei vecchi e nella copiosa letteratura
popolare, soprattutto veneto-brasiliana (canti, poesie, racconti),
che, a partire dalle celebrazioni del centenario della prima emigrazione
in loco (1975), è esplosa qua e là anche
in forme stilisticamente pregevoli. Così pure rimane nella
memoria collettiva lepopea delle inenarrabili condizioni di
arrivo e di insediamento e le lotte della prima generazione per disboscare
a braccia la montagna, per difendersi dagli animali feroci, dai serpenti,
dagli indios, dalle malattie, per costruire dal nulla strade e abitazioni,
per affrontare continuamente la paura che diventava unossessione
Questa storia di illusioni
e di sofferenze, di eroismo e di umiliazioni, questa storia
interna della nostra emigrazione, che rappresenta il rovescio
della storia esterna di cui, più che altro, si sono occupati
gli studiosi, è ancora tutta da approfondire.
Per quanto riguarda il
sud del Brasile, che può essere considerato emblematico, un
primo gruppo di emigrati arrivò, dopo indicibili peripezie
e sofferenze a quella che oggi si chiama Nova Milano, nei pressi di
Caxias do Sul. Dal porto di Porto Alegre essi proseguivano in barconi
lungo il rio Caì e poi a piedi, per chilometri e chilometri,
attraverso la selva, con le poche masserizie sulle spalle, facendosi
strada a forza di machete, fino a raggiungere i terreni
loro assegnati proprio nella foresta, a nord dei territori pianeggianti
e più fertili occupati dalla emigrazione tedesca 50 anni prima.
Si può immaginare il costo umano di tutto ciò dopo che
essi avevano tagliato i ponti dietro di sé, vendendo i loro
poveri averi prima di partire dallItalia.
Le tracce della prima
colonizzazione si possono vedere ancora oggi in molti nomi di luoghi,
come la citata Nova Milano, Garibaldi, Nova Bassano, Nova Brescia,
Nova Treviso, Nova Venezia, Nova Padua, Monteberico...; mentre altri
come Nova Vicenza e Nova Trento hanno cambiato successivamente i loro
nomi originari nei nomi brasiliani di Farroupilha e Flores da Cunha
in periodi caratterizzati da xenofobia. Tale xenofobia del governo
centrale arrivò al punto che, negli anni dellultima guerra,
a quei nostri immigrati che non sapevano parlare il brasiliano, fu
proibito (pena larresto) di parlare la loro lingua veneta, con
le conseguenze morali che è facile immaginare, oltre alle difficoltà
pratiche (le quali spesso sfociavano nel tragicomico!) che tutto ciò
produsse fra quella povera gente emarginata a cui era tolta perfino
la parola...
Si tratta comunque di
un fenomeno imponente - in Brasile come in Argentina, sia per estensione,
sia per popolazione (nellordine dei milioni di discendenti),
sia per la omogeneità e vitalità - il quale per più
di un secolo è stato trascurato se non ignorato dal governo
italiano e dalle sue istituzioni.
La stragrande maggioranza
delle prime correnti immigratorie era composta di contadini che impiantarono
nel nuovo territorio le colture e i metodi agricoli tipici delle loro
zone di provenienza (a cui si aggiunsero artigiani e commercianti).
La cultura che si impose sulle altre fu quella della vite con la conseguente
industrializzazione del vino e degli altri derivati delluva,
che ancor oggi rappresenta la maggior fonte di ricchezza dello Stato
brasiliano del Rio Grande do Sul, che rifornisce tutto il Brasile.
Andando
per le campagne si trovano ancora vitali certi antichi strumenti (da
noi ormai quasi scomparsi) dellagricoltura dell800 e della
vita domestica di allora (a Nova Padua, nei pressi di Caxias, il monumento
allimmigrante, sulla piazza del paese, è rappresentato
solennemente da una vera e propria caliera de la polenta
su un imponente piedistallo). Lalimentazione nelle campagne
è ancora sostanzialmente quella tradizionale del Veneto a cui
si è aggiunto lautoctono e immancabile churrasco
(carne alla brace).
La religione è tuttora intensamente seguita e sentita, anche
perché il clero cattolico e lorganizzazione religiosa
hanno accompagnato, fin dal primo momento, le sorti degli emigranti.
Basti pensare che le cappelle sono state fino ad oggi
i principali centri comunitari nella colonia (leggasi
campagna) non solo religiosi ma anche di organizzazione sociale e
culturale, e che intorno ad esse si sono formate via via le parrocchie
e i municipi. In anni recenti i villaggi dove non vi era un parroco
stabile si poteva assistere a scene, per noi incredibili, come quella
della popolazione riunita in un capannone che fungeva da chiesa, a
celebrare i riti religiosi senza nessun sacerdote e sotto la guida
di quello che viene chiamato il prete laico, con la partecipazione
attiva e solenne degli anziani del paese.
Chi vive in colonia,
e ha conservato per lo più il mestiere e le tradizioni dei
primi emigranti, fino a poco tempo fa era ancora considerato come
emarginato e guardato con sufficienza persino dagli stessi discendenti
di veneti abitanti nelle grandi città. Solo da qualche decennio,
da quando sono ripresi i contatti effettivi con lItalia, si
sta risvegliando ed estendendo una coscienza in positivo delle proprie
origini (non più opaco, lontano mito da dimenticare) con una
spinta a ritrovare la identità storica: una ricerca, spesso
struggente, delle proprie fonti per ripristinare quel cordone
ombelicale che era rimasto tranciato da oltre 100 anni.
Il fenomeno più
imponente allinterno di questa storia di immigranti senza
storia, come qualcuno lha malinconicamente definita, è
il mantenimento, dopo un secolo, della propria lingua di origine (il
veneto), a livello familiare, interfamiliare e, in determinate occasioni
(feste, ricorrenze, giochi, riunioni conviviali, ecc.) anche a livello
comunitario; con un grado di vitalità e di conservazione, nelle
campagne, che spesso supera addirittura quello del Veneto dItalia
il quale, comè noto, è ancora ben radicato fra
di noi. Si tratta di quella che i dialettologi chiamano un isola
linguistica, relativamente omogenea, dove la lingua veneta ha
finito col trionfare sul lombardo e sul friulano, estendendosi come
una koinè interveneta allinterno di un contesto
eterofono (il lusobrasiliano). Essa ci consente di ricostruire, come
in vitro, dopo tre o quattro o anche più generazioni,
la lingua dei nostri nonni e bisnonni, soprattutto per gli aspetti
orali non documentati come la pronuncia e lintonazione, o per
luso di certi proverbi, modi di dire, canti dellepoca.
Così, attraverso la storia delle parole (quelle conservate,
quelle alterate e quelle sostituite) possiamo ricostruire alcuni spaccati
della storia (spesso commovente) di quelle comunità. Essa,
a sua volta, rappresenta uno squarcio drammatico e appassionante della
storia dItalia e della storia del Brasile.
Chi scrive queste righe
è un vecchio emigrante che ha provato personalmente quello
che molte centinaia di migliaia di compatrioti hanno vissuto: testimone
diretto della situazione di quanti, nell immediato ultimo dopoguerra,
hanno attraversato loceano accalcati nella stiva di vecchie
Liberty, residuato di guerra, dormendo in letti a castello di quattro
o cinque cuccette disposte in verticale, con un caldo incredibile
ed in condizioni infernali di promiscuità. Egli ha girato in
lungo e in largo le Americhe per molti anni, dagli aridi altipiani
del Messico fino alla desolata Patagonia argentina. Per molti anni
in veste di emigrato e poi di studioso e di ricercatore. Come tanti
altri emigranti ha vissuto in carne propria il dramma del trapianto,
la mortificazione degli affetti, l ansia di tante illusioni,
il naufragio di tante speranze. Non ignora quindi, accanto alla portata
storica del fenomeno migratorio, il dolore, la fatica e il coraggio
che lo hanno accompagnato, anche perché, pure lui, ha cominciato
dalla gavetta - come si suol dire - svolgendo lavori manuali di sopravvivenza.
Ma la sua storia personale è poca cosa rispetto alla storia
generazionale delle nostre comunità che hanno vissuto, soprattutto
nell immenso Brasile, unepopea inenarrabile di lotte,
sacrifici, in condizioni di vita infraumane (in particolare le prime
generazioni); epopea trasmessa oralmente (perché nella maggior
parte dei casi si trattava di gente che non sapeva leggere né
scrivere) di padre in figlio, anzi di madre in figlia perché
le donne, come sempre, sono le depositarie delle tradizioni più
vitali ed essenziali. Le prime generazioni affrontarono, come si è
detto, sacrifici inenarrabili, abbandonate nelle foreste; senza Lari
e senza Penati, cioè senza casa e senza famiglia, costrette
a sopravvivere in condizioni drammatiche. Persino senza la parola,
come si è detto più sopra: senza parola non cè
identità, non cè comunità né comunicazione,
quindi non cè vita che possa dirsi umana. Ma essi hanno
resistito a denti stretti con dignità e coraggio malgrado le
umilianti e brucianti condizioni di inferiorità.
Non solo nel Brasile,
ma anche in Argentina, e altrove soprattutto i veneti, i lombardi
e i friulani, i cosiddetti polentoni (si ricordi che polenta,
nel rioplatense popolare, è passata a significare forza, coraggio)
assieme ai solidi piemontesi ed agli industriosi e parsimoniosi genovesi,
hanno fornito, con le luci e le ombre naturali in tutte le cose umane,
un contributo di progresso al paese che li ha accolti. Essi hanno
conservato nel cuore fin dallultimo quarto del secolo scorso
il sogno ed il mito della madre patria, della madre-matrigna che li
ha abbandonati per più di centanni. Loro hanno invece
continuato a rimembrarla ed a sognarla nei filò interminabili
delle stalle contadine, nellaccorata e discreta intimità
familiare, nelle commosse riunioni comunitarie, nelle umili preghiere
quotidiane.
Attraverso le generazioni
hanno conservato incredibilmente la loro lingua, gli usi, i costumi,
i riti, le feste, i balli, i giochi (il tresette, le bocce, la mora,
la cuccagna). Giochi conditi da certe nostre espressioni paesane,
ormai non più blasfeme, perché eufemistizzate, come
Ostrega!, Ostregheta! o Sacramenta!.
Si sentono ancora i canti comunitari di una volta, che noi in gran
parte abbiamo perduto, e che li hanno aiutati moralmente a vivere,
a sopravvivere: nei paesi più sperduti. Nelle piazze di alcuni
paesi abbiamo troviamo, come monumenti, oltre alla caliera
della polenta, come già detto, la carretta o la carriola, la
gondola veneziana, il leone di S. Marco (addirittura il simbolo del
Municipio di Octavio Rocha, nel Rio Grande do Sul, rappresenta il
leone di S. Marco che tiene stretto nella zampa il grappolo duva
al posto del libro tradizionale!).
Quelle persone, con il
sacco sulle spalle (con la valigia di legno in un secondo tempo e
di cartone in un terzo), fin dal secolo scorso hanno alleviato la
nostra pressione demografica, hanno reso un servizio storico allItalia,
ci hanno alleviati dalla fame, soprattutto dopo la seconda guerra
mondiale, con le loro rimesse, ed oggi acquistano in primis
prodotti italiani e quindi potenziano il commercio e leconomia
del nostro paese. Si valuta in oltre 100.000 miliardi lindotto
proveniente dalla collaborazione economica dei nostri emigrati.
Questa gente è
sangue del nostro sangue, gente che ha sofferto moralmente e materialmente
lemarginazione secolare e dalla quale abbiamo anche qualcosa
da imparare o da reimparare: quei valori che oggi in gran parte si
vanno dimenticando.
LItalia, oggi, non
può non onorare il suo debito secolare, storico, morale e politico.
Giovanni
Meo Zillo è professore Emerito di Letteratura Ispano-Americana
dellUniversità di Venezia. Ha pubblicato saggi e articoli
sullargomento di cui è studioso.
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