Conferenza
del Professore Pietro Trifone all'Istituto Italiano di Cultura di
Rio de Janeiro
Pietro Trifone
Il
testo drammatico ha uno statuto un po' particolare, diverso da quello
di altri tipi di scrittura letteraria. A differenza del testo narrativo
e del testo poetico, il testo drammatico è infatti un testo
scritto nella prospettiva di essere poi recitato: il suo processo
di elaborazione non si esaurisce del tutto nell'ambito della scrittura,
ma presuppone un ciclo comunicativo più esteso e più
articolato, che arriva a compiersi pienamente solo nel momento della
rappresentazione, quando gli attori danno corpo e voce ai personaggi,
e tutta la vicenda prende vita sulla scena. Questo carattere specifico
del testo drammatico ha inevitabili conseguenze sul piano linguistico,
nel senso che la lingua teatrale tende a collocarsi in uno spazio
intermedio tra lo scritto e il parlato: appartengono alla dimensione
dello scritto fattori come l'organizzazione delle varie parti e la
pianificazione dell'insieme, volte l'una e l'altra al conseguimento
di determinati fini drammaturgici; un tratto tipico del parlato è
invece nella stessa struttura dialogica, che sollecita lo scrittore
di teatro ad aderire alle caratteristiche di immediatezza espressiva
proprie della conversazione spontanea.
Lo sviluppo del teatro, un genere che ha proprio negli scambi a viva
voce tra i personaggi uno dei suoi aspetti fondamentali, non poteva
non risentire di un dato storico-linguistico di grande rilievo come
la prolungata assenza di una lingua parlata comune per tutti gli italiani.
È noto, infatti, che solo nel corso del Novecento si è
andato progressivamente generalizzando l'uso dell'italiano come lingua
scritta e parlata nelle diverse aree geografiche e nei diversi ambienti
sociali d'Italia. In precedenza la situazione presentava un grado
di frammentarietà decisamente maggiore: schematizzando una
realtà più complessa, si può affermare che da
un lato c'era l'italiano letterario, varietà linguistica di
pretigio, il cui campo di applicazione si limitava per lo più
agli impieghi scritti e formali di una ristretta fascia di persone
istruite, dall'altro c'era una rigogliosa varietà di dialetti,
dominatori indiscussi della comunicazione parlata. La mancanza di
una tradizione di italiano parlato ha inciso negativamente sulle sorti
del nostro teatro, contribuendo a limitare l'importanza del suo ruolo
nella cultura italiana ed europea, con l'eccezione di forme sceniche
come la commedia dell'arte e il melodramma, nelle quali il gesto e
la musica contano più della parola .
C'era insomma una difficoltà oggettiva a trovare uno strumento
linguistico che fosse adatto per le scene di tutto il paese. Non che
l'italiano di Dante o di Boccaccio fosse di per sé una lingua
meno efficiente dal punto di vista teatrale dell'inglese di Shakespeare
o del francese di Molière: ma l'italiano di Dante e di Boccaccio
era in realtà il toscano, era quindi una lingua posseduta nativamente
solo dal pubblico della Toscana, mentre per il pubblico delle altre
regioni d'Italia era in pratica una lingua straniera. Il teatro, che
è un'arte eminentemente sociale, la più sociale delle
arti, perché comporta sempre un rapporto diretto con il pubblico,
era fortemente penalizzato dalla mancanza di una piena comunione di
linguaggio tra i produttori e i fruitori dello spettacolo. In queste
condizioni, ottenere la perfetta comprensione e il coinvolgimento
emozionale del pubblico diventava un'impresa assai più complicata,
per non dire proibitiva. Si può allora capire perché
i due generi teatrali italiani che hanno goduto di maggior successo,
anche a livello internazionale, siano stati la commedia dell'arte
e il melodramma, nei quali la parola ha tutto sommato un ruolo subordinato
rispetto ad altri fattori comuncativi: la commedia dell'arte si fonda
non tanto su un compiuto organismo testuale quanto sul gesto, sulla
smorfia, sul lazzo, sull'abilità dell'istrione, mentre il melodramma
è un tipo di teatro in cui la componente musicale ha di solito
un'importanza maggiore della componente verbale.
Premesso ciò, occorre d'altra parte riconoscere che c'è
comunque stata in Italia una tradizione importante di scrittura teatrale,
una tradizione che dal Rinascimento è giunta fino all'età
contemporanea, producendo capolavori autentici come la Mandragola
di Niccolo Machiavelli, le commedie di Carlo Goldoni, i drammi di
Luigi Pirandello e di Eduardo De Filippo, le esperienze sceniche tuttora
in corso di Dario Fo. Naturalmente i migliori autori teatrali del
passato hanno avvertito con chiarezza il problema della mancanza di
una lingua comune da utilizzare per la scena, e - qualora non siano
stati attratti dalla scelta alternativa del dialetto - si sono sforzati
di porvi rimedio fondamentalmente in due modi: attraverso l'invenzione
letteraria dell'italiano parlato e attraverso l'impiego esasperato
del plurilinguismo. A queste due diverse strategie linguistiche corrispondono
due grandi filoni della nostra tradizione teatrale, che potremmo definire,
rispettivamente, del realismo espressivo e della deformazione parodica
di lingua e linguaggi. Non si pensi però a una contrapposizione
radicale tra i due filoni, che hanno invece punti di contatto e di
interferenza. Così, ad esempio, un maestro indiscusso della
simulazione teatrale del parlato spontaneo come Eduardo De Filippo
conosce e pratica le virtù comiche del gioco linguistico e
della fantasia verbale; specularmente, in Dario Fo la contaminazione
di linguaggi diversi o l'invenzione di linguaggi nuovi si accompagna
a un forte interesse per i fenomeni caratteristici dell'italiano colloquiale
e basso.
Al primo filone, quello del realismo espressivo, appartengono gli
autori di teatro che hanno cercato di declinare l'italiano letterario
in forme più vicine all'uso colloquiale. Fin dal Cinquecento
numerosi commediografi si sono impegnati a perseguire effetti di autenticità
linguistica mediante la ripresa di una serie di schemi sintattici
(brachilogie, ridondanze, frammentazioni) e di moduli espressivi (interiezioni,
ingiurie, suffissi alterativi) ascrivibili in buona parte al paradigma
boccacciano di simulazione dell'oralità. Si tratta di un insieme
di procedimenti già sfruttati dai novellieri quattro-cinquecenteschi,
ma reinterpretato dai commediografi in chiave estremistica, dal punto
di vista sia quantitativo, per la maggiore frequenza dei fenomeni
in questione, sia qualitativo, per l'accentuato grado di marcatezza
delle forme utilizzate. Nelle difficili condizioni storico-linguistiche
cui si accennava, gli antichi commediografi hanno dovuto in sostanza
procedere all'invenzione retorica dell'italiano parlato dai personaggi
sulla scena, ovvero all'elaborazione a tavolino di una lingua che
compiutamente non esisteva. Anche in conseguenza di ciò, l'italiano
teatrale pregoldoniano ci appare talvolta come un'artificiosa caricatura
del parlato, quasi una lingua che, non potendo comunque attingere
alla fonte del parlato reale, abbia indossato una specie di maschera
comica del parlato.
Notevoli passi avanti dell'italiano teatrale nella direzione di una
maggiore franchezza comunicativa si registrano a partire da Goldoni;
e non è certo un caso che tali progressi avvengano nel Settecento,
quando gli scambi tra la lingua letteraria e quella non letteraria,
tra lo scritto e il parlato, cominciano a farsi più fitti e
più consistenti. Con l'opera goldoniana la lingua della commedia
intraprende un nuovo corso, nel quale l'operazione di mimesi del parlato
non è più affidata a mezzi convenzionali, poggianti
su noti pradigmi letterari di stile comico, basso, orale, ma scaturisce
da un'analisi approfondita e originale delle effettive strategie del
discorso, che, riprodotte con sapienza nel testo teatrale, riescono
a far emergere in modo del tutto verosimile, e quindi con una maggiore
capacità di graffiare, gli aspetti divertenti o ridicoli dei
personaggi e delle situazioni. Va sottolineata, in questo senso, l'eccezionale
capacità di sfruttamento del meccanismo interattivo del dialogo,
nel quale la scintilla comica nasce appunto dall'attrito fra una battuta
e l'altra, come nel felicisssimo duetto del marchese squattrinato
con la scaltra locandiera:
MARCHESE Costoro hanno
quattro soldi, e gli spendono per vanità, per albagia. Io li
conosco, so il viver del mondo. MIRANDOLINA Eh, il viver del mondo
lo so ancor io. MARCHESE Pensano che le donne della vostra sorta si
vincano con i regali. MIRANDOLINA I regali non fanno male allo stomaco.
MARCHESE Io crederei di farvi un'ingiuria, cercando di obbligarvi
con i donativi. MIRANDOLINA Oh, certamente il signor marchese non
mi ha ingiuriato mai. MARCHESE E tali ingiurie non ve le farò.
MIRANDOLINA Lo credo sicuramente (La locandiera, I, 8) .
La capacità del
commediografo veneziano di uscire dalla logica dell'addizione di battute
autosufficienti per entrare nella logica dell'interazione comunicativa,
in cui assumono grande rilievo le allusioni e i sottintesi, si coglie
bene anche nel seguente scambio di battute tra Fabrizio e Mirandolina:
FABRIZIO Vi darò
la mano ... ma poi ... MIRANDOLINA Ma poi, sì, caro, sarò
tutta tua (La locandiera, III, 20)
La seconda parte del breve
intervento di Fabrizio è realizzata esclusivamente con mezzi
paralinguistici e con particelle discorsive: siamo lontani dalle tipologie
canoniche della frase quale appare di solito nella lingua scritta.
Le pause e il modulo ma poi ... da un lato indicano l'incertezza emotiva
del locutore, dall'altro rappresentano un'apertura di credito nei
confronti dell'intelligenza dell'intercolocutore. E infatti Mirandolina
reagisce appunto con intelligenza all'implicita richiesta di cooperazione
linguistica di Fabrizio: non a caso riprende il discorso proprio con
ma poi, facendo prevalere le ragioni complessive della testualità
su quelle particolari della singola frase, che nel caso specifico
non ha valore avversativo e quindi non giustificherebbe, in sé,
l'uso della congiunzione ma. La donna attua un'articolata strategia
di rassicurazione: dopo la citata formula di collegamento risponde
innanzitutto alla domanda virtuale dell'innamorato con un sì;
aggiunge poi un allocutivo affettuoso come caro; infine si sdilinquisce
sapientemente nella promessa sarò tutta tua, dov'è notevole
anche l'adozione del "tu" in luogo del consueto "voi".
Questa attenzione per i procedimenti operativi e cooperativi della
conversazione rappresenta una delle maggiori conquiste del grande
commediografo veneziano, uno dei risultati più nuovi e più
alti della sua "riforma" del linguaggio teatrale. Goldoni
realizza un modello di comunicazione scenica più evoluto, capace
di coniugare intensità e naturalezza: da un lato, egli sopprime
o riduce molto i consunti stereotipi caricaturali della tradizione
comica; dall'altro, recupera energia drammatica attraverso un'innovativa
tecnica di organizzazione testuale, che evidenze opportunamente -
ma zenza "strafare" - il retroterra psicologico ed emotivo
del dialogo.
La sensibilità per la dimensione interazionale del discorso,
e in particolare per i suoi elementi impliciti, si acuisce e insieme
si approfondisce in Pirandello, nell'ambito di una ricerca sulla problematicità
della comunicazione interpersonale, di cui il seguente scambio tra
Silia e Guido nella scena iniziale del Giuoco delle parti costituisce
un saggio esemplare:
SILIA (dopo una lunga
pausa, con un sospiro, come se parlasse tanto lontana da sé)
Lo vedevo così bene! GUIDO Che cosa? SILIA Forse l'ho letto
... Ma così preciso ... tutto ... con quel sorriso per niente
... GUIDO Chi? SILIA Mentre faceva ... non so ... le mani non gliele
vedevo ... Ma è un mestiere che fanno lì le donne, mentre
gli uomini pescano. Vicino l'Islanda, sì ... certe isolette.
GUIDO Ti sognavi ... l'Islanda? SILIA Mah!... Vado così ...
vado così! (muove le dita, per significare, in aria, con la
fantasia. Pausa - poi di nuovo smaniosamente:) Deve finire! Deve finire!
(Quasi aggressiva:) Capisci che così non può più
durare? GUIDO Dici per me? SILIA Dico per me! GUIDO Già, ma
... per te vuol dire per me? SILIA (con fastidio) Oh Dio! Tu vedi
sempre piccolo. La tua persona. Te, in ballo (Giuoco delle parti,
I,1)
Risalta anche qui la nota
capacità pirandelliana di suggerire gli aspetti tonali, le
sfumature affettive, le intenzioni latenti. Lo scrittore privilegia
la paratassi, movimentata da segmentazioni e cambiamenti di progetto.
Le frasi nominali simulano i tipici problemi di pianificazione del
parlato, come in "Vicino l'Islanda, sì ... certe isolette",
oppure riflettono un'intenzione enfatica, come in "La tua persona.
Te, in ballo". Strutture enfatiche sono anche la doppia ripetizione
"Vado così ... vado così...!", "Deve
finire! Deve finire!" e la pseudo-domanda "Capisci che così
non può più durare?", decisamente orientata in
senso performativo. In "Vado così ... vado così!"
il riferimento deittico ha una forte implicazione gestuale, chiarita
dalla didascalia. Particolare importanza hanno le numerose pause,
di diversa lunghezza in rapporto al diverso significato testuale.
Appare perfetto, dal punto di vista interazionale, il congegno delle
battute-eco "Dici per me?" - "Dico per me!" -
"per te vuol dire per me?". Tra i vari segnali discorsivi
(non so, sì, mah!, Già, ma ..., Oh, Dio!) andrà
inserito anche il "sospiro" della prima didascalia. Si possono
menzionare infine la dislocazione a sinistra "le mani non gliele
vedevo" e l'uso rafforzativo della particella pronominale in
"Ti sognavi ... l'Islanda?".
Anche l'opera di Eduardo De Filippo si colloca sostanzialmente sulla
linea goldoniana della naturalezza espressiva, interpretata però
secondo la prospettiva pirandelliana della difficoltà di comunicare.
Dopo le prime prove più direttamente debitrici alla tradizione
vernacolare partenopea, assorbita dall'artista fin dall'infanzia nella
grande scuola scenica del padre Scarpetta, il parlato teatrale di
De Filippo trova una sua cifra specifica nelle varie relazioni, ora
alternative ora complementari, che di volta in volta vi stabiliscono
la lingua e il dialetto. Nel primo atto di Filumena Marturano, ad
esempio, abbiamo lo scontro tra l'italiano della giovane snob Diana
("Che profumino: ho un po'di appetito", "Oh, le rose
rosse ...! Grazie, Domenico") e il napoletano della protagonista
analfabeta ("Levate 'o càmmese", Pòsalo ncopp'
'a seggia"), che non viene capito dalla ragazza, e richiede quindi
la traduzione di Rosalia ("Levatevi questo", "Mettetelo
sopra la sedia") . Specularmente, nel secondo atto, l'avvocato
Nocella "volgarizza"in napoletano l'articolo del codice
civile risultato incomprensibile per Filumena:
NOCELLA (a Filumena) E
allora c'è a suo vantaggio l'articolo 122: Violenza ed errore.
(Legge) "Il matrimonio può essere impugnato da quello
degli sposi il cui consenso è stato estorto con violenza o
escluso per effetto di errore". L'estorsione c'è stata:
in base all'articolo 122, il matrimonio viene impugnato. FILUMENA
(sincera) Io nun aggio capito [...] Avvocà, spiegateve 'a napulitana.
NOCELLA (porgendo il foglio a Filumena) Questo è l'articolo.
Leggetelo voi stessa. FILUMENA (strappa il foglio senza neanche guardarlo)
Io nun saccio leggere e po' carte nun n'accetto! NOCELLA (un po' offeso)
Signò, siccome nun site stata mpunt' 'e morte, 'o matrimonio
s'annulla, nun vale.
Altre volte abbiamo invece
una sorta di compenetrazione tra l'italiano e il dialetto, che si
avvicendano nei discorsi dello stesso parlante non tanto come due
codici linguistici contrapposti quanto piuttosto come due diversi
registri stilistici. In Sabato, domenica e lunedì la varietà
domimante è un italiano colloquiale con coloriture regionali,
come risulta dal seguente brano:
VIRGINIA Allora signo',
me lo date il permesso domani? ROSA Virgi', devi stare qua. Ho parlato
tedesco poco prima? Alla fine del mese io faccio il mio dovere, e
tu devi fare il tuo. Se tuo fratello va carcerato, peggio per lui.
VIRGINIA Io resto, ma il mio dovere non lo posso fare in tutto e per
tutto. Se rompo qualche cosa, se mi chiamate e io non rispondo a tempo,
non vi dovete fare predere quello dei cani, perché io sto qua
ma la testa la tengo a casa. ROSA E invece devi tenere anche la testa
qua, se no ti licenzio e buonanotte. VIRGINIA E allora per domani
solamente mi porto a mio fratello con me. ROSA Ma che sei pazza? Vuoi
portare in casa un tipo come tuo fratello? E questo ci manca. VIRGINIA
Ma quando quando sta con me diventa una pecora. E poi la famiglia
vostra la rispetta. A voi specialmente vi vuole un bene pazzo (Sabato,
domenica e lunedì, I)
Le differenze più
rilevanti della lingua teatrale eduardiana rispetto al parlato reale
riguardano soprattutto fenomeni poco funzionali alla scena, come il
mutamento di progetto e l'autocorrezione. Per il resto, notiamo il
vivece susseguirsi di frasi brevi, talvolta nominali, le domande perlocutive
e altri inserti "pragmatici" (ti licenzio e buonanotte,
E questo ci manca), il tessuto di segnali discorsivi all'inizio dei
turni dialogici, le dislocazioni a destra e a sinistra (me lo date
il permesso domani?, il mio dovere non lo posso fare), la ridondanza
pronominale (A voi ... vi vuole un bene pazzo), il che introduttore
dell'interrogativa (Mache sei pazza?), le formule cristallizzate (Ho
parlato tedesco ...?, diventa una pecora), insieme con tratti centromeridionali
come gli allocutivi apocopati (signo', Virgi'), tenere per 'avere',
l'oggetto preposizionale (mi porto a mio fratello con me), la posposizione
del possessivo (la famiglia vostra), l'uso del voi come pronome di
cortesia.
Il passaggio dall'italiano colloquiale al dialetto napoletano non
dipende in genere da fenomeni di competenza inadeguata o sbilanciata
dei due codici, che sono noti entrambi ai personaggi della commedia
(anche se il livello di padronanza non è uguale per tutti),
ma dipende soprattutto dagli slanci emotivi dei parlanti, che, lasciandosi
trasportare dai propri sentimenti, scivolano spontaneamente dalla
varietà di maggior prestigio sociale a quella di maggior forza
espressiva. Rispetto al solo italiano e al solo napoletano, il mistilinguismo
italiano-napoletano del parlato scenico di De Filippo realizza un
significativo ampliamento dei registri espressivi, utile a conseguire
gli effetti drammatici ricercati; ed è il modo eduardiano di
comporre la tradizione del teatro popolare con quella del teatro borghese.
Le didascalie - che nell'opera di De Filippo sono particolarmente
frequenti, ampie e minuziose - provvedono a integrare le parole con
indicazioni sui gesti e sugli altri aspetti (visivi, sonori, spaziali,
scenografici) della rappresentazione, contribuendo a definire il carattere
di una scrittura che ingloba e riassume al suo interno l'esperienza
della drammaturgia novecentesca e quella dell'antica scuola comica
italiana.
Il filone del plurilinguismo teatrale, della contaminazione e deformazione
parodica di lingua e linguaggi, si collega a uno dei poli della tradizione
letteraria italiana, la cosiddetta "linea Folengo-Gadda",
il cui principale tratto distintivo risiede appunto nello sfruttamento
espressivo o decisamente comico dei contrasti tra lingue, dialetti,
varietà sociali e culturali, registri stilistici, gerghi, oltre
che in un certo gusto per l'invenzione verbale e per il gioco di parole.
Per quanto riguarda specificamente il linguaggio teatrale italiano,
gli incunaboli di questo filone possono essere rintracciati in una
popolare tecnica espressiva dei buffoni medievali: basti pensare alla
figura leggendaria di Gonnella, della cui eccezionale maestria nell'arte
della contraffazione e della mimesi fonico-verbale si favoleggia anche
nelle novelle di Matteo Bandello. Dopo le numerose e spesso importanti
esperienze del plurilinguismo rinascimentale, la commedia dell'arte
codifica questo aspetto peculiare della nostra tradizione teatrale
in forme che resteranno esemplari. Alla fine del Seicento il massimo
teorico della commedia dell'arte, Andrea Perrucci, ribadisce nel trattato
Dell'arte rappresentativa premeditata e all'improvviso l'esisgenza
imprescindibile di usare lingue diverse sulla scena, soffermandosi
con dovizia di esempi sull'articolata e ormai cristallizzata caratterizzazione
idiomatica delle varie maschere .
Ai nostri giorni, un caso limite di manipolazione linguistica sostenuta
dai funambolismi mimico-gestuali dell'attore è costituito dal
grammelot di Dario Fo, che riprende solo le sonorità, l'intonazione
e le cadenze tipiche di una determinata lingua o varietà, e
le compone in qualcosa che assomiglia a un discorso ma consiste invece
di una rapida sequenza di elementi fonici per lo più non corrispondenti
a parole reali. Si tratta in sostanza di una variante delle tradizionali
tecniche recitative di contraffazione della voce, nella quale la ricerca
mimetica dell'artista è diretta a riprodurre certe peculiarità
acustiche del fenomeno linguistico. Le possibilità di significazione
e di comprensione di questi farfugliamenti imitativi del modo di parlare
dello Zanni affamato o di uno scienziato americano o di altri personaggi
sono legate ad alcune espressioni chiariamente riconoscibili, inserite
di tanto in tanto, e soprattutto alle straordinarie doti gestuali
e mimiche dello stesso FO, che riesce a convertire il bizzarro gorgoglìo
vocale in una specie di allocuzione fornita di senso .
Con la sua dirompente radicalità, il grammelot supera i più
trasgressivi esempi offerti dalla tradizione del plurilinguismo, e
arriva addiritttura ad annullare gli elementi basilari di qualsiasi
comunicazione linguistica: la parola e la grammatica. Per quanto caratterizzata
da una singolare carica eversiva, l'invenzione di Fo va comunque considerata
un esito di quel filone carnevalesco che, come si diceva, parte dalla
buffoneria medievale, ha un importante momento di sviluppo nella commedia
dell'arte, e continua in altre significative esperienze del teatro
italiano del Novecento. Per documentare le analogie e i rapporti presenti
all'interno di questo ricco filone, che si è realizzato soprattutto
nella dimensione dell'oralità scnenica e quindi può
essere ricostruito solo parzialmente attraverso testimonianze scritte,
riporterò tre brani nei quali un comico dell'arte del tardo
Cinquecento, un noto uomo di spettacolo del primo Novecento e infine
lo stesso Dario Fo fanno rispettivamente il verso ai pretenziosi gerghi
di un alchimista, di un medico e di un giornalista televisivo.
Il primo brano è tratto da una commedia del 1583, L'Alchimista
di Bernardino Lombardi, un comico professionista specializzato nel
ruolo del Dottore; ripropone appunto un carattere tipico dei discorsi
del Dottore il procedimento qui utilizzato di accumulazione parossistica
di termini tecnici:
Parasio, mio precettore
nelle stillazioni, mi ha dato i gradi di fuoco, di fusione, del circolare,
del cimento a vento aereo, occluso, temperato, continuo, di segature
di lucerna, di fumo, di bagno, di cenere, d'arena, di calcina, circolare,
e bagno al sole. Questi son tutti fuochi usati dagli alchimisti. I
vetri, i pelicani, nata, leuti, storte, palle, fuselli, recipienti,
l'oro per il Sole, l'argento vivo per il Mercurio, lo stagno per Giove,
il rame per Venere, il piombo per Saturno. I mezzi minerali che s'adoprano,
saranno arsenico, risagallo, orpimento, vitriuolo, verde rame, sale
armoniaco, salnitro, sulimato, antimonio (L'Alchimista, II, 8) .
Nell'atto unico di Ettore
Petrolini Romani de Roma, rappresentato per la prima volta nel 1917,
ritroviamo la parodia del ciarlatano, orientata però in una
direzione più apertamente ludica e arricchita di estrosi umori
popolareschi:
Ritornanno ar fatto in
embrione io direbbe a quela regazza: ma perché ti vuoi trucibaldare
per amore quando si sa che l'amore è un morbo, una malattia
della psiche! Fino dai tempi preistorici, dai tempi antipediluviani,
quando l'uomo faceva il pediluvio ... quando viveva nelle caverne
che aveva una voce cavernosa ... parlava così ... [...] Fin
da quei tempi l'amore era considerato materia prima, un bisogno dell'organismo
di traversare gli umori all'essere amato, una malattia del cute ...
dell'epidermide ... sì perché puoi dire epidermide,
pelle e puoi dire il cute ... quando ti rode il cute di' pure che
sei innamorato. Ora la scienza farmacopea scientifica moderna che
cosa ti ha inventato? Ti ha inventato la puntura antiamorosa (Romani
de Roma)
Veniamo infine al grammelot
di Dario Fo, tenendo presente che in generale non ne esistono esempi
scritti, ma solo descrizioni sintetiche dell'autore o testimonianze
dirette tratte dalle videoregistrazioni degli spettacoli. Chi volesse
farsi un'idea del grammelot o mettterne in scena un pezzo non potrebbe
quindi fare riferimento a una trascrizione, che del resto sarebbe
difficile e persino inutile realizzare, ma potrebbe invece seguire
le descrizioni dello stesso Fo o, meglio ancora, attingere direttamente
alle sue esecuzioni teatrali conservate dalle videoregistrazioni.
Un breve saggio scritto di grammelot si può tuttavia trovare,
eccezionalmente, nel Manuale minimo dell'attore, un volumetto in cui
Dario Fo ha spiegato vari aspetti del suo modo di fare teatro. Il
brano presenta il grammelot del giornalista televisivo:
Oggi traneuguale per indotto-ne
consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparetico
ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al
presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto: Reagan,
si può intervento e lo stava intemario anche perdipiù
albato - senza stipuò lagno en sogno-la-prima di estabio in
Craxi e il suo masso nato per illuco saltrusio ma non sempre. Si sa,
albatro spertico, rimo sa medesimo non vechianante e, anche, sortomane
del pontefice in derivica lonibata visito Opus Dei .
Nell'esperienza di Dario
Fo, e in particolare nella fortunata invenzione del grammelot, il
filone della manipolazione carnevalesca del linguaggio raggiunge senza
dubbio un punto di tensione sperimentale particolarmente avanzato.
Le considerazioni e gli esempi che ho fatto miravano anche a ricordare
che il grammelot non è stato comunque una creazione ex nihilo,
ma ha trovato al contrario un fertile terreno di sviluppo e alcuni
precedenti significativi nel patrimonio di cultura teatrale e di pratiche
recitative della tradizione comica italiana.