Marco Lucchesi e la sua
inquietudine
Ettore Finazzi-Agrò
Se
esiste una fi gura giu-ridica come la legitima suspicione ed
esiste, stando alle decisioni recen-ti del nostro parlamento ,
ebbene io vi incorrerei stase-ra. Vale perciò la pena che io
confessi subito la mia colpa: il fatto stesso che io sia qui a parlare
dellopera poetica di Marco mi rende legittima-mente sospettabile,
perché di Marco sono amico non so se fraterno o paterno,
data la differenza detà da mol-ti anni.A lui mi
uniscono ricordi e complicità, letture e brani di esistenza
che fanno data da una sera lontana a Rio de Janeiro, quando, quasi
per caso, mi recai ad assistere ad una sua conferenza presso il centro
culturale del Banco do Brasil. Noi universitari siamo in genere smaliziati,
a volte cinici, ed è diffi cile che ci lasciamo sedurre dai
discor-si altrui (noi ci viviamo, ci nutriamo, ci giochiamo con le
parole
), ma accade a volte, raramente, che si pos-sa rimanere
incantati dalla grazia sublime di un ragio-namento inaspettato, di
un approccio particolarmente originale, di una totale, fol-gorante
illuminazione di un tema che ci pareva scontato e che ritroviamo invece,
lì, davanti a noi, spogliato di ogni superfetazione critica,
di ogni luogo comune, restituito al suo nitore iniziale, alla sua
mirabile essenza. È questo ciò che mi accadde quella
sera, assistendo alla conferenza di Marco: la scoperta di una verità
nuda e semplice, come sempre semplice (non banale, ma semplice) e
senza veli do-vrebbe essere la verità della letteratura. Feci,
alla fi ne, una doman-da dichiarando il mio nome e, con mio grande
stupore, Mar-co con un atteggiamento che scoprii, poi, essere
pro-fondamente suo dichiarò gioiosamente, con una sim-patia
inattesa, di aver letto le mie cose, dicendosi molto felice di incontrarmi
in quel modo. Felice fu, in effetti, quellincontro che si è
varie volte ripetuto, in Italia o in Brasile (ricordo, soprattutto,
una passeggiata che sembra-va non aver fi ne sullAvenida Atlântica,
animata da una di-scussione che noi volevamo che non fi nisse mai).
Di fat-to, il nostro dialogo è conti-nuato fi no ad oggi, fra
pause apparentemente interminabili e gioiose, a volte casuali, oc-casioni
di incontro, mentre io ho continuato a leggere i suoi testi, con una
assiduità che prolungava la sua presenza e rinsaldava la mia
stima nei suoi confronti.Nel frattempo, comera da attendersi
o, almeno, come io mi aspettavo fi n dal-linizio ,
Marco è diventato uno dei poeti brasiliani più noti,
apprezzati, premiati. Questo, per la verità, è soltan-to
uno degli aspetti della sua attività, una delle forme nelle
quali si manifesta il suo mul-tiforme ingegno, anche se
è forse la forma nel quale esso si dichiara nella maniera piò
compiuta di quella com-piutezza sempre sul punto di compiersi
che è propria del-la poesia. Ciò che stupisce, di fatto,
in Marco è non solo lampiezza dei suoi impegni culturali
(traduttore, critico, direttore di riviste, studioso di lingue) ma
anche la sua capa-cità di transitare attraverso tali impegni,
mantenendo una coerenza di fondo, un rigore ed una capacità
di esprimer-si nella pluralità che ha po-chi paragoni, che
io sappia, nel mondo. Tanto per fare un esempio: chi conosco io, chi
voi conoscete che possa curare ledizione delle opere (quasi)
complete di Leopardi in lingua portoghese, organiz-zare unantologia
di poeti rus-si del 900 e comporre poesie in arabo? Marco ha
fatto tutto questo e molto, molto altro ancora, pur mantenendosi,
a tuttoggi, a distanza di sicu-rezza dai 40 anni! Di fronte
a tale varietà di interessi e a tale precocità di realizzazioni,
il primo so-spetto potrebbe essere quel-lo del dilettantismo. Ma è
un sospetto che può sfi orare soltanto chi non abbia letto
le sue poesie, consultato i suoi studi, verifi cato le sue tradu-zioni
che, per contro, non su-scitano la minima impressio-ne di superfi
cialità, essendo, per contro, tutte opere di al-tissimo valore.
E allora biso-gna forse andare più in pro-fondità e
cercare di cogliere nella varietà, nella pluralità delle
pratiche la singolarità e la specifi cità di un autore
che vive e si alimenta proprio della eterogeneità. Si potrebbe
quasi dire che per capire Marco bisogna collocarsi in quella situazione
triviale evocata da Roland Barthes bisogna, cioè,
attestarsi agli incroci (ai trivi, appunto) nei quali precariamente
con-verge e si dipana una verità plurale che è poi quella
del-la cultura, nel suo senso più ampio. Per soffermarmi an-cora
per un attimo su Barthes (cui Marco somiglia, almeno per quel che
concerne la sua attenzione stupita verso quel senso che si cifra e
si decifra incessantemente nella scrit-tura la funzione ermeneu-tica
che per il critico france-se svolse il giapponese e che per lui è
stata svolta dallara-bo, suo inatteso impero dei segni),
per citare, allora, an-cora una defi nizione che Bar-thes ha dato
dello scrittore (del grande scrittore), bisogna dire che la forza
che contrad-distingue la pratica artistica e culturale di Marco è
proprio la sua capacità di spostarsi, di trasferirsi
là dove non si è attesi.Ecco, per cercare di defi
-nire compiutamente lattività svolta dal mio caro Amico
fi no ad oggi, per cercare una logica unitaria nella diversità
e ampiezza dei suoi interessi, si deve a mio parere partire da tale
esigenza di spostarsi verso linatteso, di eludere ogni presa
e ogni pretesa di comprensione, che deriva, a sua volta, da una consapevo-lezza
acuta della trasversalità dei saperi e dei linguaggi che li
esprimono. Se fossi perciò obbligato a dare unidea sem-plice,
a proclamare la nuda verità della sua scrittura, po-trei solo
appellarmi a questa continua ulteriorità del senso che gli
si è rivelata fi n dal-linizio e che egli ha pervica-cemente
inseguito, a questo suo dimorare nel passaggio tra istanze artistico-culturali
differenti, a questa divagan-te attenzione verso un centro che è
ovunque e può darsi che non sia mai da nessuna parte. Il suo
mirabile impegno, di fatto, la sua sublime os-sessione è quella
di arrivare a scoprire e a dar conto di questa eccentrica essenziali-tà,
di questo inspiegabile già da sempre spiegato e ancora sempre
da decifrare, di que-sta piegatura del reale che trascorre e si dispiega
nella diversità delle forme, nella misteriosa latenza del se-gno
e del senso sorretto sempre da una prodigiosa preparazione
culturale e da una curiosità senza fi ne, ma consapevole, altresì,
che il suo patrimonio di letture e di conoscenze lo sospinge fa-talmente
verso ciò che non si dà a leggere se non in modo enigmatico,
verso quellAs-soluto che, dimorando nelle pieghe del reale e
del lin-guaggio che lo esprime, con-tinuamente si offre e si nega
alla conoscenza umana. Ciò di cui oggi dobbiamo discu-tere,
la poesia che siamo chiamati a commentare mi si presenta perciò
solo come la traccia di una ricerca in-terminata, sempre sul punto
di compiersi e mai compiuta, visto che essa esclude, dal-linizio,
il raggiungimento del suo oggetto mi si pro-spetta, infi ne,
come lo stupe-facente arabesco che abita fra noi e ciò che
(forse) non ci è dato di raggiungere. Ma questa, ancora una
volta, è solo la semplice, grandiosa, nuda verità della
poesia o, almeno, la mia triviale, pre-caria relazione con il Vero
che in essa continuamente intravedo e che continua-mente mi fugge