Raffaele Carrieri.
Solitudine, meraviglia, non amore
Luigi Cavallo
«Avrei voluto chiudere il cielo / Come una semplice porta /
Per restare una giornata
/ Acquattato nell’erba / In attesa di niente.»
«Fui mimo / Ad Atene / E battiloro / A Damasco.»
«Chi è passato prima di me / Di me ha lasciato orma.
/ […] / Chi è passato prima
di me / Di me ha lasciato ombra / […] / Chi è passato
prima di me / Di me ha lasciato
esigua / Impronta di corta mano. / […] / Chi è passato
prima di me / Di me ha lasciato
fresca / Memoria di giuochi. / […] / Chi è passato prima
di me / Di me ha lasciato
specchio / Di morte e tazze colme.»
«Attraversai il mare / E me ne andai / Al paese dell’aquila
/ Grigia e della pecora.»
«Io sono / Solo / E questo / È tutto.»
La più schietta,
la più impura traccia della propria esistenza Carrieri ci ha
lasciato nella sua poesia tessuta in vista e in fi ligrana di esperienze
quanto mai vere anche quando si esplicitano come fi nzioni, quanto
mai autobiografi che persino quando son presi a pretesto frutti, fi
ori, uccelli. Così imprecisa e penetrante la vita di Carrieri
da leggere nei suoi testi poetici, tanto da aver reso in sostanza
superflue, se non impedito, le note biografi che, i percorsi che tentano
dipanare la sua matassa creativa partendo da indagini sull’esistenza.
Quanto c’era da scrivere, scavare, trascurare, tutto quanto
c’era da lasciare sotto traccia e da rivelare, Carrieri lo ha
sigillato nei propri versi cercando di elidere quelle frange che pedanti
ricerche hanno invece fatto affi orare confondendo essenziale e inessenziale,
incastri di vero-falso e vero-vero. La voce di Carrieri è l’unica
a poter decidere di quei fatti interiori che hanno dato corpo espressivo
alla sua poetica.
Bastino le citazioni che abbiamo messo all’ingresso per avere
idea di quei fatti da cogliere per lampi, scaglie e brividi, i soli
che, guardandosi allo specchio, Carrieri sapeva adoprare come attrezzi:
consultare il passato per scoprire le giornate nuove, afferrare quell’inezia
che è la vita per dar modo alla poesia di costruire, di solidifi
care il pulviscolo della memoria. Il gioco dei ricordi è un
alveo doloroso in cui può facilmente scorrere la malinconia;
tuttavia Carrieri riesce a tenere zampillante la propria sorgente,
ricorda e scioglie gli argomenti talvolta in ironia, talvolta in realtà
crudeli, talvolta esponendosi nella gabbia del condannato, talvolta
rifugiandosi come un selvatico nella tana, sempre chiedendo aiuto
a quella fresca eccitazione melodica – e sono canti, gridi,
richiami, sussurri, sibili di vento – che è carattere
del suo fare poesia.
Musica del tutto singolare, inusata nella letteratura italiana del
Novecento; campanelli, fi schietti, sonagli alle caviglie dei cantimbanchi,
trombette di carnevale, ocarine, scacciapensieri, armoniche a bocca,
giocarelli sonori. Carrieri usa qualunque strumentino ritrovi nei
cassetti dell’infanzia, nelle sacche militari, qualsiasi cosa
sia stata perduta da lui o da altri mentre correva alla festa: si
incontrano i sortilegi di Oriente e Occidente, mercati, venditori
ambulanti, organetti, mangiafuoco, maghi, ciarlatani.
***
Per dare un fi lo appena
su cui può avventurarsi il lettore-equilibrista, a costo di
forzare i gusti del poeta, diciamo che Carrieri nacque a Taranto nel
1905 (la data di nascita provoca la prima controversia: sui documenti
è segnato 23, ma egli sapeva essere del 17 febbraio) ed è
morto nella sua casa di Lombrici di Camaiore,in Versilia, il 14 settembre
1984. La formazione, dopo le scuole tecniche, è affi data a
lui stesso; si appropria della sua esistenza, partendo, fuggendo da
casa quattordicenne, clandestino per l’Albania, quindi raggiunge
a piedi il Montenegro. A Fiume è volontario con d’Annunzio
nel 1920-21. Il legionario Carrieri Raffaele «che ha ben servito
la causa e ben meritato della Patria» (come scrive il Comandante
in un diploma commemorativo della Marcia di Ronchi) è ferito
durante il Natale di sangue. Una ferita che lo priva dell’uso
della mano sinistra («Ho fatto tutto con una sola mano»,
diceva a quanti si stupivano per i tanti volumi che aveva scritto).
Dopo breve ritorno a Taranto per ristabilirsi – lo troviamo
impiegato avventizio presso l’Uffi cio Comunale per il Censimento
del 1921 – si imbarca per i porti del Mediterraneo, visita città
della costa africana. A Palermo, per due anni, 1922-23, veste la divisa
di gabelliere: secondo i suoi ricordi, qui scrive poesie che più
tardi faranno parte del Lamento del gabelliere.
Prima incursione a
Parigi nel 1923; quindi ritorno a Taranto. 1925, la Ville lumière
è ancora il suo traguardo; questa volta vi resta più
a lungo. È assunto come sguattero al noto ristorante Poccardi,
dove l’imperizia e il guaio alla mano gli fanno compiere stragi
di cristalleria. Fra passioni e amori, la fame era sola compagna fedele.
Per non arrivare a mani vuote in una riunione a casa di Achille Funi
che aveva ricevuto i cappelletti da Ferrara, andò a prendere
fi ori nel vicinocimitero di Montparnasse. Il furto charlottiano fu
subito scoperto. Era la sera in cui un altro invitato émigré,
Giorgio de Chirico, borbottando perché la cena era tra soli
uomini, fu accontentato dal padrone di casa che propose di far salire
due sorelle «slave» che stavano al piano di sotto. Una
di queste, Isabella Faar, sarà la futura compagna del Pictor
optimus.
I soggiorni parigini
e i viaggi per l’Europa, svegliarono all’arte il nostro
gabel-
liere che possiamo ribattezzare «doganiere», poiché
non stona il richiamo con il pittore Rousseau, con Rousseau amico
di Apollinaire, con Rousseau stimato da Picasso. Il surrealismo allargava
i tentacoli assieme con la rintoccante spirale dei nazionalismi, iperboli
nazionali, che sembrarono ridicole utopie del tutto provvisorie al
cosmopolita tarantino che già allora non credeva nel tempo,
nelle consecuzioni cronistiche, affascinato dall’estensione
dei millenni, che si sentiva radicato nella Fenicia, nella Grecia
arcaica.
Come abbiamo visto
in Lamento del gabelliere: «Fui mimo / Ad Atene / E
battiloro / A Damasco»; e ancora: «O Eros / Zingarello
/ Egoista / Dei miei / Paesi / Di argilla.» «Chi è
passato prima di me / Di me ha lasciato orma. / Rintraccio l’esile
forma / Del piede che fu mio / Tra il terzo e il quarto / Secolo […]
/ […] / Mia è questa pupilla / Pigra e un poco torva
/ Graffi ta sulla ciotola / Di creta rossa […] / […] /
[…] nata / Non era la colomba d’Archita / Quando tra questi
ulivi / Mi colse prima morte.»
Diversa, e come, dall’enfasi
gloriosa di Quasimodoche svegliava i classici, questa catenella di
parole che Carrieri segna sul proprio corpo come tatuaggio leggero.
Il Mediterraneo antico rinasce nelle rughe del poeta tarantino, viene
tolta la polvere al bassorilievo toccato con pollice incerto, come
fa intendere, favola conosciuta e sconosciuta insieme, un navigante
approdato su spiagge deserte. Carrieri cerca nella sua sofferta e
nascosta forma civile di fi glio naturale una matrice, la Madre Mediterranea
che ha dato natali alla sua voce. La poesia gli serve come strumento
di scavo, lampada per leggere sulle pareti, nell’antro risonante
del passato, i nomi degli antenati, quanto può esserci di suo
in quell’improbabile albero genealogico che lo riporta al cuore
della Magna Grecia.
Quasimodo tentava la
storia, riudiva gli antichi miti; Carrieri nell’Antologia Palatina
vuole attingere una sorta di riscatto. Dalla metrica dei Greci rialza
qualche margina- le assonanza per confortare il suo presente. La sua
poesia
non viene da studio, ma dalle viscere della vita; «un verso
è per lui una convinzione vitale piuttosto che una convenienza
del sentimento o un giuoco della passione del tempo», ha ben
visto Carlo Bo.
Dopo quattro anni
di penosa vitarella tarantina che lo porta sull’orlo del suicidio,
nel 1930 si stabilisce a Milano; nel 1931 c’è traccia
di un suo intervento a una serata futurista. Un libro di narrativa
del 1932 ha per titolo Fame a Montparnasse; non era che un capitolo
della saga che si reiterava, fame in Albania e Montenegro, fame a
Roma, fame a Milano: così si chiama infatti la sezione seconda
de La ricchezza del niente: «Nella capitale degli acciai / […]
/ Facevo molta fame: / Bevevo acqua a colazione, / Come i cavalli
dormivo in piedi / E nelle notti d’estate / Strofi navo le spalle
/ All’albero della cuccagna. / […] / La sinistra l’avevo
perduta / Nei capricci militari, / La destra rimasta illesa / Una
mantenuta sfaticata, / Senza nemmeno una laurea. / […] / Ripresi
invece a rattoppare / Il passato al presente.» Ecco al lavoro
il poeta-artigiano, il rabdomante e l’attore, che aveva da rappresentare
una dura commedia lunga quanto la vita; ecco la vera impresa del poeta
Carrieri: «rattoppare / Il passato al presente». Che duro
mestiere, che incertezze, che ostacoli da non superare, da inghiottire
interi come bocconi di fuoco.
Verrebbe voglia di
dire che apprezziamo Carrieri per quanto c’è di noi nel
suo raccontare febbrile, nel suo scorgere poesia là dove è
soltanto amarezza, per quel suo infi lare materiali poveri dove altri,
altrimenti, tengono a fi lare preziosità e moderazione, dove
altri sanno dosare sotterfugi spirituali e accorte economie critiche.
Nessun calcolo lo guida, ma volontà di dissipazione. Non troviamo
sequenze logiche e qualità omogenee nei libri di Carrieri;
entrare nelle sue pagine è salire su una carrozzella un poco
ballonzolante, ma che ci fa percorrere paesaggi frequentati di rado,
se non fantastici, ci fa incontrare un presepe sonoro dove le statuine
cantano davvero, una storia inventata come un viaggio insieme felice
e triste, pieno di illusioni e colpi di realtà. Né ci
sarà alcuna conclusione alle sue sto rie, piuttosto
un continuum temporale e vitale… La sua opera ha un invito del
tutto moderno: non vuole avere inizio, si nega a date precise, sprofonda
nei secoli, e non intende alcuna fi ne, si proietta nell’ignoto.
Ogni cosa è
al suo posto, fuori posto, anche le occasioni d’amore, gli incontri
sono sbilanciati e fuori luogo, magari, troppe esultanze e troppi
abbracci. Vien da chiedersi quanti abbiano meritato le dediche del
poeta, ma che importa, i nomi dei presenti valgono quelli degli assenti,
i lontani, i mai nati. Nel suo campo si alternano con pause distoniche
profili di carta ritagliata, esseri in perpetuo movimento e fi gure
immobili, sono spaventapasseri, sono
statue, confondi il contadino vivo con la mummia mortifi ata dalle
bende.
Carrieri ha saputo
portare quantità di materiali nella nostra poesia ed è
stato così male ricambiato da quei magistratini che hanno vista
corta e dita solo per comprovare, riscontrare, sapientemente segnare
ciò che viene estratto
dal tascapane con parsimoniosa, con vigilata sapienza. Il valore portante
sul quale si è ossifi cata la linea della critica riguardo
alla poesia italiana, come sappiamo, è quella Sbarbaro-Montale,
del tutto rispettabile se non la si vuol considerare in assoluto la
migliore: altre voci, perfortuna, fecondano il territorio novecentesco;
la mirabile gracilità di Penna e, perché no, de Pisis,
poeta di cristalli e piume, il canto intimista di Saba, la vocazione
etrusca e tragica di Cardarelli, il cantare aspro di Gatto, il metallo
vocale di Sinisgalli, la rauca e lacerata presenza di Caproni,e ancora
belle risorse liriche riconosciamo in Calogero, Parronchi, Pecora,
Casadio.
Non si può dire
che Carrieri sia meno attraente di Quasimodo o di Ungaretti;
diverso, certo, ma quanto fecondo e inusitato, quanto più vicino
ad esempio, a Dino Campana che a Montale; e parliamo di grandi macchine
poetiche, facciamo riferimento a personalità che hanno saputo
dispiegare ardue avventure al vento contemporaneo: Campana impastando
fango, sangue e follia, Montale serrato nella sabbia soffocante del
quotidiano, facendo fatica a respirare nella retorica del tempo, denunciando
la perversione di un’epoca che aveva scelto la tragedia per
affermarsi. Carrieri è fuori da qualsivoglia linea politica,
non mostra trame compiutamente etiche, non sa altra religione che
amore; nelle stagioni che inventa, seminando versi libri parole non
si cura di piccoli vantaggi personali, della messa a profi tto di
strategie letterarie.
Le sue antipatie erano
irremovibili; le simpatie non andavano ai potenti. Era, la sua, ricchezza
del povero, un niente. Incerto su ogni strada, non cercava ripari
ma emozioni, non si preparava alla gloria, aveva piacere di rotolare
nella polvere insieme con l’ultimo dei viandanti. Lui stesso
che aveva vanità di farsi ritrarre dagli amici pittori non
concedeva aureole alla sua testa: ogni volta infrangeva con un colpo
di bastone il suo mezzo busto, sapeva che la corruzione è parte
esplicita della forma plastica; «rattoppare / Il passato al
presente» perché, magari, qualche pezzo archeologico,
qualche tavoletta di creta potrà salvarsi dal naufragio, rammentare
un frammento di poesia.
Fame materiale, fame
d’amore, di compagnia, di vita. Milano sembrava rispondere alle
necessità profonde di Carrieri e gli anni Trenta erano nella
città lombarda densi di imprese intellettuali, artisti, editori;
territorio nel quale il poeta poté trovare amici, amicizie
che dureranno. Cantatore, Tomea, Bontempelli, Barilli, Longanesi,
De Libero, Arturo Martini, Gatto, Sinisgalli, Quasimodo, de Pisis
nel niddi via Rugabella, Solmi, Afeltra, Carlo Bo, San Lazzaro, Alberto
Mondadori, de Chirico, Savinio, Sironi, Marini, Campigli, Zavattini,
Persico, Marotta, Ungaretti, Tofanelli, Scheiwiller… Un registretto
di nomi che è palcoscenico del travaglio culturale e politico
dell’Italia in crescenza, con fi ducia nella poesia e nell’arte,
al di là e contro le convenienze, in dispetto dei contenimenti
e delle convenzioni del regime.
Il digiuno aiutava
l’insonnia, il fumo, il caffè, eccitavano la fantasia,
la notte era momento per raccogliersi e scrivere, affrancato delle
luminarie passionali. I mercanti e pure i collezionisti d’arte
moderna erano di là da venire, con rare e avare eccezioni.
I pittori morivano del proprio lavoro.
Memorabili, poiché
non frequenti in quei tempi di penuria, le riunioni attorno a tavole
apparecchiate. Un aneddoto raccolto dalle sue labbra: a casa della
moglie di Sironi, Matilde, fu invitato per una cena in occasione della
mostra personale di Rosai a Milano, Galleria delle Tre Arti, inaugurata
con un discorso di Savinio, dicembre1933; alle pareti quadri di Sironi,
di quelli famosi. Carrieri ricorda che Savinio versava in miseria,
lui pure, non meno Ottone Rosai. La cena era allettante, ma Rosai,
visti i quadri, disse che non se la sentiva di mangiare fra quelle
cose; l’appetito non poteva giustifi care compromessi; se ne
andò, nonostante le preghiere degli amici, che vedevano
minacciato il convito. Carrieri dissentiva dall’ostilità
per l’arte di Sironi, ma di Rosai apprezzava il carattere. Tempi
discontri non solo morali e di inguaribili dissidi ideologici, schermaglie
fi losofi che e letterarie che il poeta osservava
senza mettersi nella mischia.
Visto a ritroso potrebbe
sembrare un periodo quanto mai intenso e fertile, quello fra il 1930
e i 1945, segnato di illusioni, penuria materiale, ricchezza spirituale;
e poi il sangue, i bombardamenti, la vicinanza coatta nei rifugi,
la
Liberazione. E in tutto questo se la politica rendeva faziosi, la
poesia rendeva liberi.
I libri di Carrieri
si moltiplicavano: Fantasia degli italiani, Milano, Editoriale Domus,
1939; scritti su pittori italiani contemporanei, 1940, 1941, 1942;
Arthur Rimbaud, Edizioni della Conchiglia, Milano, 1945, e Paul Verlaine,
ivi, stesso anno. Qui iniziano i brogliacci di Carrieri, ospitati
in Domus, Panorama, con titoli ricorrenti come «Catalogo»
e «La camera oscura»: ritratti di Barilli, Campigli, Flora,
Soffi ci, Baldini. Altri testi furono pubblicati sull’Illustrazione
Italiana, su La Lettura. In seguito nel Corriere della Sera, Corriere
d’Informazione, Epoca, che fu la sua palestra di commento e
di critica.
Nel 1946 il volume
di poesie Souvenir Caporal inaugurava le Edizioni d’Arte Mondadori.
Milano-Sera, che nel ’49 pubblicò la sua rassegna di
critica Forme, fu editore l’anno appresso del libro Brogliaccio,
con introduzione di Mario Praz, vero arricchimento per l’interpretazione
dello scrittore tarantino; prefazione ristampata nel volume Il grano
non muore, che raccoglie il me-
glio della prosa di Carrieri.
Prosa e poesia crescono
di passo. In Souvenir Caporal Carrieri prende coscienza di cosa sia
ormai la storia, grondante dolore: «Non c’è in
tutta la terra / Un pugno d’acqua bianca / Senza ruggine di
sangue. / Non c’è in tutta la terra / Una rondine incolume.»
«Una sera fra le sette e le nove / Il sangue s’apprese
alla mota / Allo scocco del coprifuoco.» E qui si intravede
fascinazione per la lirica di Lorca, una corda non lenta nel lavoro
di Carrieri. Sarà esplicito in «Compianto per Garcia
Lorca», contenuto nel medesimo libro.
Anche nella raccolta
La civetta qualche lucente tessera lorchiana nel disegno del suo mosaico;
persino la dolente ottica iberica, oggetti, animali, piante quali
metafore della sofferenza profonda che lega il poeta al mondo, Carrieri
fa colare come liquido dolceamaro nella sua pagina. I colori divengono
più opachi: «I chiodi mi fanno male /E io mi metto a
ballare / Per dare sollievo alla voce / E placare latrato di cane.
/ La cenere diventa neve / Il cielo pietra nera / E io mi metto a
ballare». «Lasciatemi solo coi fi umi / Di queste nebbie
/ Che consumano la pianura / E l’osso nero delle montagne. /
Lasciatemi senza lumi / Come un legno ammutinato.» La valenza
meridionale di Carrieri è in questa tangenza, volta al Sud,
dalla Puglia alla Spagna all’Egitto al Medio Oriente. Una circolarità
di sapori, paesi, rondini che vanno e vengono in cerca dei luoghi
caldi. Diresti che anche la poesia di Carrieri è un migratore
in cerca del tepore amoroso: «Mi chiama no laggiù dalle
isole / E mi gettano ponti d’amore.» «Tu canti e
non sai / Che ruscelli mi dai. / Tu canti e io ascolto / Il tuo canto
/ Pei giorni all’ombra / Quando dietro la porta / La terra sarà
una grigia / E vana pietra.»
La semplicità,
gioia di un attimo, la lettera d’argento da spedire all’innamorata.
Carrieri rinuncia a ogni addobbo quando il canto si fa lieve co-
me brezza, si fa profondo e ristoratore: «Nella tua mano piccolina
/ Io sto gaio e leggero / Come il vento nell’organetto / E il
pesce sfuggito alla rete.»
In ogni libro tornano
i temi che battono ai suoi più riposti pensieri, le condizioni
primitive del suo essere che ha radici nelle terre bibliche, mare
che unisce gli orizzonti e li fa casalinghi; Il trovatore contine
e mette in rilievo le sue combinazioni di personaggio cresciuto in
antiche coste assolate: «Trascorremmo in altri lidi / E in altre
vite / La nostra vita. / Isole penisole estuari! / Allegri furono
i mari / E le terre degli anforai. / Ci ritroviamo negli avi / Come
schiavi in una danza». «Tu piangi e mi domandi: / Perché
nuovi chiodi? / Non ci sono più rose a Rodi / Né rondini
alle Piramidi.» «I cammellieri fermarono i cammelli. /
L’aria era piena di tamburi».E ancora più eloquente
il rammarico per le esistenze perdute: «Fra le tante mie vite
/ Ahimè, mal fi nite / Una ne ebbi breve / Più lieve
e fl essibile / Delle altre mie tutte / Disciolte o perdute / Lungo
le rive dell’Egeo. / Piacque forse agli Dei / Nel trapasso /
Delle Ombre e dei Soli / Mutarmi in rondine / In alcione.»
Carrieri ci concede
di leggere e rileggere sulle stesse chiavi armoniche infi nite variazioni
della condizione di esiliato nel suo tempo; ci ripete che la solitudine
ha molti compagni, qualche felicità, delusioni e fi ammate
di tenerezza. Il poeta è come tutti, mostra le proprie imperfezioni,
allo specchio non si rallegra, la sua mano offesa è similitudine,
la più calzante, della sua anima, un gesto nel vento: «Il
vento ci somiglia / E pure l’eco / Dentro la conchiglia / Che
rimormora lo spreco / Delle maree.» La parola non è scelta
con la capacità del gioielliere che incastona la gemma, spesso
è parola povera che riscatta il qualsiasi nelle pause del silenzio.
Carrieri non mette piume di pavone al suo corvo, preferisce che la
cenere sappia di cenere e gli odori siano «di paglia e d’acqua»;
i suoi invitati siedono su panche e mangiano pane e ulive.
Ancora è la
vita, l’incontro di una nuova compagna, che infoltisce il pomario
e dà dolci frutti; Canzoniere amoroso è una lettera
alla persona amata che abita a Parigi, e da questa città apollinairiana
partono e arrivano messaggi che fanno gremita la voliera del poeta.
Oltre Parigi si scorgono i colori suoi più cari: «Blu
turco, folletto d’oltremare / In altre contrade e carte / Chiamato
pure turchese. / Batticuore del celeste / Che vuole essere verde /
Laggiù, nel Golfo Persico. / Verde Nilo, verde Bisanzio / Oro
verde del Serraglio. / Quanto spreco di blu turco / Dall’azzurro
all’azzurrino: / Nelle isole del turchino / Tutti i verdi fanno
turchese.» «Non si stanca l’arancio / A fare il
fiore d’arancio. / Da vene, da scale nere / Sale invisibile
il seme / E s’incarna in luce.»
I titoli delle altre
raccolte: La giornata è fi nita, 1963; Io che sono cicala,
1967, che si conclude con il gruppo di liriche «In morte di
mia madre», colei che chiama «La formica Maria»;
ed è immagine centrale da qui in poi, quasi la morte avesse
scolpito nella madre tutte le forme degli antenati, fi nalmente una
sola fi gura vera da tenere a vita nel cuore: «Apprendo un altro
silenzio / Alla fi ne del giorno: / La sera attendo / Il tuo ritorno.»
Alla solitudine si accoppia il silenzio. Per superarli servivano a
Carrieri molti compagni e musica, e rumore. Il suo battello ormai
è in un porto vuoto e silenzioso, non sarebbe più andato
per mare.
Dalla lettura sparsa
delle poesie di Carrieri rimane sapore di miele e di sale; sa-pori
che prendono alla gola con il dispiacere di non poter più vedere
l’occhio avido, rapace del poeta che viveva di emozioni e ogni
volta puntava tutto ciò che aveva su un numero nuovo: pittore,
donna, uomo che fosse, venditore di oggetti, di musica, di parole…
La tenda del nomade Carrieri è piena di vistosi regali –
infanzia, innocenza, felicità come incanto, dolore come disamore
– è colma di pregevo li mercanzie che potremmo ben consumare
anche in questo secolo, vino resinoso che ci riporta all’antico
e ci può dare nuove ebbrezze, un battito d’ali nel nostro
cupo bosco letterario.