Centenario di Raffaele
Carrieri
Leopoldo Paciscopi
Che gran pescatore, Raffaele. Così
presi a immaginarlo dopo quel luglio del 1976 che segnò il
momento della nostra vera conoscenza, quando lo vidi immerso nella
casa di Lombrici, una delle fantastiche reti nelle quali custodi va
il ricco pescato della sua esistenza. Nella rete milanese, la casa
di via Borgonuovo, non mi capitò mai di entrare, ma guardandola
nelle fotografi e che introducono il libro di Luigi Cavallo “Raffaele
Carrieri, una vita per la poesia” non potrei dire quale delle
due fosse estensione dell’altra, tanto gli oggetti e le presenze
narravano storie dove i tempi si confondevano e ovunque venivano a
dire il presente e il passato. Sia a Lombrici che a Milano attorno
a Raffaele si affollava e quasi pareva aver anima quanto gli apparteneva:
lettere foto disegni incisioni e dipinti di amici, marionette, maschere
e ferri rituali africani, gigantesche galline di terracotta, bombole
per l’ossigeno da saldatori, denti d’elefante, tamburi,
sculture esotiche e nostrane, scatole, vetri, libri e altro e altro,
fi no a riempire ogni parete, ogni angolo e persino a occupare i pavimenti
nei quali bisognava muoversi con cautela.
Mi stupì, il
penetrare in quell’itinerario di stranezze e di meraviglie,
ma non tardai a capire che andando verso la camera dove Raffaele stava
un po’ a leggere e un po’ a riposare era parte del suo
ritratto che gli oggetti della mia curiosità venivano a delineare.
E subito gli invidiai l’aver saputo gettare sin dagli inizila
rete capace di conservargli per intero l’esistenza, tanto da
farlo tornare ragazzo ad aggirarsi tra i pastori dell’Albania
e del Montenegro, legionario con D’Annunzio nell’avventura
delle Cinque Giornate di Fiume, marinaio lungo le coste africane,
cittadino di una Parigi dove era stato amico e pari dell’intelligenza
che vi si era riunita tra gli anni Venti e Trenta. E tutto senza che
tali turbinose vicende apparissero remote nostalgie o vanterie di
quelle con le quali i vecchi spesso annoiano i giovani. Pagine oggetti
testimonianze venivano a collocarsi in un perenne presente e narravano,
lucidi e vivi come il protagonista che si muoveva in una scena nella
quale veniva la smania di entrare ma che per noi gente comune si rivelava,
pur essendo lì a un passo, malinconicamente irraggiungibile.
Questo incontro del luglio 1976 avveniva dopo che con una poesia di
Carrieri, a me dedicata, avevo arricchito una cartella di serigrafi
e frutto delle magie editoriali di Giorgio Lucini ed era in conseguenza
di questo benevolo gesto di stima verso la mia pittura che ero andato
a Lombrici in compagnia di Luigi Cavallo. Purtroppo dalla poesia,
trascritta in bei caratteri da un disegnatore perché potesse
occupare un’intera pagina della cartella, era stata omessa una
riga e mi attendevo un rimprovero, che non arrivò. Fui anzi
da principio messo a disagio da elogi che non mi pareva di meritare
e vagamente intimidito, ma tutto si dissolse nelle ore cheseguirono,
sino a farmi sentire in famiglia grazie a un dialogare dove la sapienza
lasciava spazio con naturalezza a una dolce umanità. La poesia,
intitolata, come la mia cartella, “Scherzo sulle preferenze”
è rimasta inedita nella sua completezza e non fi gura in nessuna
delle raccolte di Carrieri. Penso che il renderla nota non costituisca
atto di immodestia per il fatto che sia stata a me dedicata. Eccola:
Mai dico:
toglietevi la camicia!
Anche se la camicia
E’ una cartina
da sigarette:
Mi diverte vedere
le gambe
In trasparenze affumicate.
Il colore che preferisco
Nella biancheria
E’ il ruvido bianco opaco.
Ne ho spogliate tante
Scherzando, fi schiettando.
Talvolta ho lottato,
Ma senza convinzione.
L’illusione fa parte
Del gioco d’amore
Come carezze
e dannazione.
Come gli strozzini
di Dumas padre
Il nero prediligo
nelle calze,
Un solido nero polposo
Con qualche
rammendo aperto
In salita, sul punto giusto:
Uno strappo
appena scucito
Oltre il pomo
del ginocchio.
Capovolto riconosco
il mio occhio.
La mia cartella aveva
nella prima e nell’ultima di copertina due nudi femminili,
in quattro serigrafi e segnavo, a tratto fermo e colori pieni e freddi,
particolari di una donna rigida nella sua quasi astrazione, e in una
quinta se-
rigrafi a tracciavo le immagini di una coppia immobili come nella
vetrata di una cattedrale. Carrieri riportava i miei disegni a condizioni
più terrene, ma solo apparentemente, poiché il suo “scherzo
sulle preferenze” si affi dava chiaramente alla fantasia e all’illusione
che “fa parte del gioco d’amore”.
Quando nel 1978 Cavallo pubblicò il volume che ne tratteggiava
il percorso poetico, Carrieri volle che tra le illustrazioni ne apparissero
due prese dalla mia cartella. Mi dedicò poi il libro il 27giugno
1979 (ero andato a Lombrici e a un certo momento della giornata mi
era successo di leggergli alcuni suoi versi) scrivendo “Al ca
ro amico Poldino che ha dato voce alla mia poesia. Con affetto, Raffaele”.
Ci davamo del tu e mi chiamava “amico Poldino”, ma potevo,
in tutta onestà e con il nulla che avevo saputo offrigli, pensare
che fra noi potesse essersi stabilito quello straordinario sentimento
che i latini, facendo derivare il termine amicus dalla stessa radice
di amare avevano chiaramente definito?
Ammetto che dietro l’interrogativo si celava un lonta no antefatto
e un certo senso di colpa che gli è collegato. Perché
io e Raffaele Carrieri ci eravamo incontrati alla fine degli anni
’40, molto prima di quello che ho chiamato
“il momento della vera conoscenza” e a lungo mi sonochiesto
e continuo a chiedermi come sia potuto accadere che in giorni ricchi
di fermenti di passioni e di entusiasmi io non sia riuscito a capire
l’uomo che la sorte mi aveva messo vicino.
Lavoravo allora per “Milano sera”, un curioso quotidiano
milanese che era diretto da uno scrittore e nella cui redazione si
aggiravano altri scrittori, artisti, poeti, intellettuali insomma
come avevano (avevamo) il vezzo di defi nirsi. Il direttore, Corrado
De Vita, aveva chiesto a Romano Bilenchi di unirsi a quel gruppo dove
poteva ritrovare amici come Alfonso Gatto o Vittorini, e Romano, troppo
occupato con il suo quotidiano fi orentino “Il nuovo corriere”,
nel declinare l’invito aveva suggerito il mio nome spingendomi
in piazza Cavour 2 ad attirarmi simpatie e a provocare più
di un disordine.
Ero spesso nella stanza di De Vita (che mi offriva anche ospitalità
durante i miei soggiorni milanesi) e mi capitava, con il furore e
la sfaccia ta freschezza dei vent’anni, di impartire lezioni
su tutto, dall’impaginazione alla politica editoriale. Spesso
mi venivano idee che a prima vista potevano apparire stravaganti,
ma che De Vita ascoltava, elaborava e metteva in pratica, spesso tra
lo stupore incredulo di qualche redattore.
Legai molto in quei tempi con Alfonso Gatto, già istintivamente
iscritto fra gli amici fi n da quando lo avevo visto a Firenze, seduto
accanto a Ottone Rosai a un tavolino fuori del caffè delle
Giubbe Rosse. Era l’autunno del 1941
e io alle Giubbe ero di casa; lo ero da sempre, dato che sin da bambino
arrivavo lì ogni giorno portato per mano damio padre e fra
quelle mura e quegli specchi ero cresciuto e maturato fi no a essere
ammesso all’amicizia da quel particolare tipo di frequentatore
che si distingueva dai frequentatori comuni, sbrigativamente defi
niti “borghesi”. Erano amici destinati, ma non se ne rendevano
conto, a entrare nel mito (per esservi ammessi devono passare un bel
po’ di anni e verifi carsi fortunati eventi) ma godevano già
di una buona notorietà, i pittori fra chi si intendeva d’arte
o presumeva d’intendersene, gli scrittori e i letterati nella
cerchia di coloro che avevano familiarità con la cultura e
la roba stampata.
Mi garbava frequentare Ottone per la sua maniera di affrontare la
gente e gli argomenti in maniera diretta, senza tanti fronzoli, di
dire insomma “pane al pane” anche a rischio di farsi dei
nemici. Non mi ci volle molto per capire che anche in Gatto, sia pure
senza la brutalità talvolta straripante di Rosai, c’erano
sincerità e idee che potevano legare con la mia visione del
mondo. Lo sentii anche fratello, io che grazie a una maturità
poco d’accordo in apparenza con la mia giovane età facevo
già parte della cospirazione antifascista, nell’apprendere
che le sue posizioni contro la dittatura gli avevano fatto passare
diversi guai a Milano.
Ma non è qui che devo raccontare dei miei giorni fi orentini.
Ne ho accennato
perché fu anche il ritrovarmi con Alfonso Gatto che in un certo
senso mi distolse dall’osservare compiutamente l’ambiente
di “Milano sera”. Quando nella stanza di De Vita capitava
Raffaele Carrieri che del giornale era criticoteatrale, io che magari
stavo infervorandomi con Gatto nel discutere di calcio di ciclismo
di Firenze di Bilenchi di Ottone di cinema o di quel niente
che delle Giubbe era rimasto, avevo per lui, a quegli argomenti chiaramente
insensibile, un’attenzione appena superfi ciale. Riuscì
ad attirarmi, e per diversi giorni, quan do un accenno del redattore
alla terza pagina Siro Musso
mi rivelò che anche Carrieri aveva avuto a che fare con il
cinema. Alla settima arte ero interessato, come storico e come critico,
e stavo man dando avanti briciola dopo briciola una fi lmografi a
che confl uì poco dopo in un’ampia appendice a un saggio
di Carlo Lizzani. Un racconto di Carrieri, “Un milionario si
ribella” era servito nel 1942 come soggetto al fi lm “Miliar
di che follia” del regista Guido Brignone, e io perseguitai
il povero soggettista incal-
zandolo a ogni incontro fi no a estorcergli ogni minuzia su quell’opera
neppure insigne alla quale aveva legato il suo nome. Lui era piuttosto
sec cato del mio interessamento a qualcosa che pareva quasi voler
dimenticare, ma credo che la sua gentilezza fi nì col prevalere
sulla voglia di mandarmi a quel paese e la mia scheda si arricchì
di un numero i informazioni che a guardarle ora mi sembrano persino
assurdamente eccessive.
La fi lmografi a di Brignone rimase fuori dalle 268 pagine della mia
appendice, ma anche se ce l’avessi inserita avrei dovuto sfoltire
e non di poco i riferimenti a “Miliardi che follia”. Il
nome di Raffaele Carrieri non fi gura in nes suna storia del cinema
e forse è questo che lui voleva, né le poche volte che
costituironoi momenti della nostra “vera conoscenza” io
mai vi accennai, ma oggi guardo l’antica scheda, ne considero
l’accuratezza e mi chiedo il fastidio
che dev’essere costato a quell’adorabile persona il metterla
insieme, e per contentare un ragazzo pieno di sé che neppure
mostrava considerazione (ammirazione) per ciò che lui rappresentava,
con la sua vita e i suoi scritti. Guardo la scheda, vagamente commosso,
e risento quel senso di colpa e la mancanza di una possibile amicizia
che avrebbe potuto arricchirmi nei tanti anni che seguirono per arrivare
al 1976.
Ci sarebbe stato ancora un avvenimento, nel mio periodo milanese,
legato al nome di Carrieri, e a provocarlo fu nel 1950 l’uscita
di un suo libro, il “Brogliaccio”, nelle edizioni di Milano
sera, che mi parve, come era accaduto l’anno prima con “La
coda di paglia” di Alfonso Gatto (deliziosi i disegni di Maccari),
decisamente degna di una veste migliore. Incontrando Gatto a Firenze,
nella tipografi a di Carlo Parenti, l’editore di Solaria e di
Letteratura, mi venne un’idea folgorante che accennai a Carlo
e arricchii di particolari mentre con l’amico poeta andavo da
via Venti Settembre verso il centro di Firenze. A un tavolino delle
Giubbe Rosse chiesi delle carta da lettere e con la complicità
di Alfonso, scrissi a De Vita una lettera alla mia maniera, senza
perifrasi, dicendo il male che pensavo delle edizioni Milano sera,
riferendomi in particolare al “Brogliaccio” di Carrieri,
proponendo di sopprimerle e di ridare vita e slancio alla casa editrice
Parenti.
Ho detto com’era De Vita e com’erano i rapporti fra me
e lui. Non si smentì. Appena arrivato da lui a Milano, in poche
parole si mostrò entusiasta dell’idea e mi dette carta
bianca nella trattativa con Carlo.
Il resto, nel bene e nel male, fu gli anni che trascorrevano, fra
mille vicende. Nei giochi della politica, chiudevano “Milano
sera” e chiudeva “Il nuovo corriere” dov’ero
andato a lavorare con Bilenchi,
se ne andavano pian piano gli amici molti dei quali già consegnati
al mito oltre che alla tristezza dei ricordi.
Nel 1976, come ho detto, riapparve per me Raffaele Carrieri. Un tempo
desolatamente breve.
Ora la sua poesia ho imparato a conoscerla e ad amarla. E’ una
musica magica. Ma non mi basta. Come lui
Ho perduto vecchi amici
che sembravano fedeli,
e altri più giovani e leggieri
sono usciti dai muri
come ladruncoli svaniti.
Se ne sono andati
quasi tutti
in punta di piedi,
ballerini incapaci
che fi ngevano volare
verso frontiere assicurate.
Nessuno si voltò
a guardare
dalla mia parte informe
dove, dopo le rovine,
la musica ricominciava.
C’è gente nuova ai tavolini delle Giubbe Rosse dove mi
ostino a fare malinconiche apparizioni. E sulle strade del Giro e
del Tour non c’è più Coppi a far scrivere a Gatto
di “quel pinocchietto” che faceva ciao a Bartali e agli
altri corridori “con tutte le cinque dita aperte sul naso”.