CIACOLE VENETE

Polenta o osei all'Hotel Paradiso di Simla in Kashmir

L’otto maggio 1979 il caldo ad Agra era decisamente insopportabile: 48 gradi all’ombra. I monsoni non erano ancora arrivati e l’umidità superava l’80%.
Ci ero andato per accompagnare tre mie amiche venete - era il periodo dei “figli dei fiori” e della spiritualità indiana - che assolutamente volevano vedere il più grande monumento all’amore che nella storia un essere umano abbia voluto dedicare alla sua amata: il Taj Mahal, splendido Mausoleo che nel 1526 Shah Jahan, volle erigere alla memoria della sua amatissima Pushpa, per amore della quale aveva del tutto rinunciato alle sue 27 concubine.
Shah Jahan, splendido imperatore mogul, quasi rovinò le casse dello Stato facendo arrivare tonnellate di pregiati marmi di Carrara e ponendo al lavoro più di diecimila uomini, in compenso, il Mausoleo, perla dell’architettura mogul, fu pronto in soli tre anni.
In quell’occasione potei togliermi una bella soddisfazione: le mie amiche che erano imbevute di spiritualismo orientale volevano che io - illuminista e razionalista conclamato - presentassi loro un “sadhu”, un santone indiano.
Al lato del Taj Mahal - point turistico obbligato - ce ne era uno: meditava, nella obbligata posizione del loto, magrissimo, vestito solo di un piccolo cencio a coprirgli i genitali, i lungi capelli sulle spalle ricoperti di cenere.
Lo interpellai e per la gioia delle mie amiche disse di avere cinquantatre anni (ne dimostrava trenta), di aver totalmente abbandonato i piaceri della carne, di cibarsi solo di qualche erba e tisana. Passò lì vicino, proprio allora, uno studente di italiano all’Istituto di Cultura, lo chiamai e gli chiesi se sapesse chi era il sadhu: certo che lo conosceva, lo conoscevano tutti ad Agra. Era sposato, aveva sei figli, cinque amanti e trentasei anni di età. Però sosteneva che “if you want to make money, enter the spiritual business”. Alle mie rimostranze, rispose con un disarmante sorriso, che lui era un benemerito: realizzava per i turisti europei quel sogno per cui erano venuti in India. Secondo lui, l’Ente per il turismo indiano avrebbe dovuto dargli un ricco stipendio... le mie amiche furono fortemente deluse.
Distrutto dal calore, decisi di prendermi alcuni giorni di ferie e di puntare verso climi più accettabili, al Kashmir, e per cominciare, dalla capitale estiva britannica, Simla, che giace alle pendici dell’Himalaya, a duemila metri di altezza.
Simla è nota per splendide ville coloniali inglesi e scozzesi, cui scappavano i colonizzatori britannici all’approssimarsi dell’estate. Allora non esisteva l’aria condizionata. La periferia di Simla mi accolse con quella che qui si chiamerebbe una “favela”; un’immensa baraccopoli in cui un elemento dissonante colse subito la mia attenzione: a colori sgargianti, una baracca si definiva pomposamente “Hotel Paradiso”; sull’unica facciata un menu in legno dichiarava: pasta e pizza, bigoi e polenta e osei.
Di fronte a questo palese attestato di civiltà veneta, non potei trattenere la mia curiosità ed entrai: ad accogliermi un gigante canuto, ma con ancora delle tracce bionde nei capelli, di occhi cerulei, con un naso che rivelava una costante ed amorevole frequentazione col vino.
In Veneto - ovviamente - gli chiesi se davvero offriva i “bigoi”: quasi si mise a piangere tanto era emozionato; quello era il trucco che si era inventato per richiamare un possibile turista veneto ed io ero il primo, in trenta anni, che gli si presentava. Dopo scolate un paio di bottiglie di quello buono, che aveva riservato per le grandi occasioni, mi raccontò la sua storia: si chiamava Bepi Bordin veniva da un paesino del Rodigino (guai a dire Rovigoto, pena l’odio eterno degli abitanti) e, a ventitre anni, coinvolto nelle guerre fasciste era stato preso prigioniero in Africa, a El Alamein, dove le truppe italiane abbandonate da Rommel, poco avevano potuto fare per contenere la V Armata del Maresciallo Montgomery. Gli inglesi lo trasferirono con un lungo viaggio su di una carretta del mare, in India, al campo di concentramento di Dehra Dun, alle pendici dell’Himalaya. Tutto sommato non era stata un’esperienza troppo dura: le sue abilità di cuoco lo fecero apprezzare dagli ufficiali inglesi e dalle autorità locali, si da passare tre anni in una condizione di semi libertà.
Alla fine della guerra seppe che a causa della militanza nella resistenza di un suo fratello, una spedizione punitiva della Wehrmacht aveva fisicamente eliminato tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la casa in cui era nato. Decise di restare sposandosi peraltro con una bramina, per cui un uomo di pelle tanto chiara, capelli biondi ed occhi azzurri era un regalo del cielo. Mi presentò i suoi tre figli: due femmine ed un maschio, tutti di carnagione candida ed occhi cerulei. Dei marziani in quel posto. Dovetti declinare le sue veementi insistenze a restare ospite dell’Hotel Paradiso: non ebbi coraggio di dirgli che mi spaventavano le condizioni igieniche.

 


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