Una Vita in America
Sara Debenedetti
I temi legati alla migrazione
– esilio, identità, nostalgia –sono tutti presenti
nel romanzo Vita, di Melania Mazzucco. Al centro due ragazzini, Diamante
di dodici anni e Vita di nove; che sbarcano a Ellis Island nel 1903,
provenienti da Tufo di Minturno. Seguendone le vicende per un arco
di tempo di dieci anni si ha uno spaccato della condizione dell’immigrato
e del trauma di un adolescente, che vive nell’isolamento e nella
solitudine: trauma che gli si impone, per raccontare l’esperienza
vissuta, una volta tornato, traducendo la sua esperienza in storie
dove la finzione si mescola alla realtà.
L’esperienza di Diamante e Vita, nomi significativi, è
quella della separazione dalla famiglia, dell’allontanamento
dal paese, non per libera scelta, ma perché così hanno
voluto e deciso i loro padri, pur essendovi in certo modo costretti
dalla necessità economica. Il loro è un viaggio verso
un luogo e una vita ignoti, dove si compirà una specie di rito
di passaggio: “compiere la traversata – morire –
se volevano crescere, se volevano sopravvivere.” E dove li attenderà,
soprattutto nel caso di Diamante, una grande solitudine. “La
solitudine costituiva l’elemento epico del suo viaggio”.
“Così cammina dall’alba al buio, coi secchi, l’acqua
che sciaborda contro il legno, il cigolio dei carrelli sui binari,
il silenzio e canti di uccelli sconosciuti tutt’intorno - [...]
Danzava fra i binari, con la mente vuota, lontano da tutti e da tutto”.
Non voci, dunque, ma suoni della natura – e silenzio; silenzio
che si avverte quando non si ascoltano voci simili alla propria; e
sottolinea la solitudine in cui vive Diamante in quegli anni. Solitudine
che gli deriva anche dal fatto di essere ‘diverso’: è
l’unico tra i ragazzi del “bordo” (pensione per
immigranti) che sa leggere e scrivere.
Ma in America non può leggere il giornale degli americani,
che quindi sanno cose che lui non saprà mai. Per questo–
egli pensa - viene chiamato con disprezzo greenhorn, wop e ghini ghini
gon, anzi goon, dago soprannomi e nomignoli più o meno insultanti
dati agli immigrati italiani. Diamante conclude che italiano è
un insulto. La mancanza di conoscenza della lingua del nuovo paese
gli impedisce o rende difficile la comunicazione, l’inserimento,
prolunga la sensazione di estraneità e accentua la solitudine,
provocando in lui il desiderio di imparare la nuova lingua, come mezzo
essenziale per ‘appartenere’, per non essere ‘diverso’
e isolato. Quando Vita viene mandata di forza a scuola dalle assistenti
sociali, la prima cosa che le chiede Diamante è di insegnarle
‘l’americano’, perché “Lui avrebbe
dato qualsiasi cosa per [...], per sedersi in una classe e imparare
daccapo a parlare. [...] Allora non si sarebbe vergognato di aprire
bocca ...”
“Anonimo straniero”:
così si sentiva Diamante. Queste due parole insieme condensano
e intensificano, quasi esasperano la condizione dell’immigrato,
condizione esterna e interna in cui l’individuo può venire
a trovarsi o sentirsi. Anonimo, ossia privo di nome, rende difficile
l’identificazione, ossia il riconoscimento dell’identità.
L’immigrato vive in uno stato di discontinuità, separato
dalle sue radici, dalla terra natale e dal suo passato. Sente l’urgente
necessità di ricostruire la sua vita frantumata. Ma questa
rottura non si ricompone né nel tempo né nello spazio.
Il nuovo mondo ricostruito è naturalmente artificiale e la
sua irrealtà è simile alla finzione.
Sara Debenedetti
Docente Eugenio Montale (San Paolo) e
Corso di master lingua e letteratura italiana (USP)