Rina Sara Virgillito traduce Emily Dickinson

Sergio Romanelli

Estatiche e torturate”, così definisce Marisa Bulgheroni le 114 poesie di Emily Dickinson tradotte da Rina Sara Virgillito e pubblicate postume da Garzanti nel 2002.
Questo lavoro ha richiesto, per venire alla luce, due anni di amorevole ed emozionante fatica. La bellezza potente di queste traduzioni è stata subito evidente, ma il problema che si è posto in primis è stato quello di preparare l’edizione critica di testi che non erano stati rielaborati per un’eventuale pubblicazione. Sonia Giorgi (studiosa ed erede universale di Rina Sara Virgillito) mi ha coinvolto in questa avventura, ed è stato così appassionante percorrere i sentieri nascosti e non facili della creazione letteraria che avvicinare questo mistero è divenuto il fulcro della mia ricerca, fino a farsi materia della mia attuale tesi di “Mestrado”, che verte appunto sulla specificità e particolare pregnanza di una traduzione da poeta a poeta. Perché, di fatto, in simili casi, non si tratta di mestiere, ma di tentativi, di solito ben riusciti, di recuperare e ricreare in un differente codice linguistico quella lingua pura - come affermava W. Bejamin - o lingua degli angeli - come la chiamava P. Valéry - che precede la parola poetica e ad essa dà origine.
Durante la comparazione e il confronto fra le varianti dei testi autografi, tre elementi sono balzati subito all’attenzione: il minuzioso lavoro di revisione, la scrupolosità delle scelte linguistiche della traduttrice ed il rispetto dell’originale.
Un attento e lucido lavoro di revisione ha portato Virgillito, a volte dopo diversi tentativi, alle versioni definitive. La poesia 1247, ad esempio, presenta ben otto versioni: il problema fondamentale è la traduzione del verbo inglese to pile; quale sarà la scelta migliore? Ammonticchiarsi, accumularsi, dilatarsi, comprimersi, concentrarsi, addensarsi, restringersi o costringersi? Ogni parola è soppesata, provata, scartata e poi magicamente riabilitata. Alla fine ne risulta una versione, spesso l’ultima, meno dubbiosa nelle varianti, più rispettosa dell’originale.
Mai Virgillito si abbandona a licenze di alcun tipo. Durante il lavoro di traduzione, a conoscenza del perfezionismo di Dickinson, scarta sempre le scelte più ovvie e d’effetto più immediato: nella poesia 1315, ad esempio, in una prima versione traduce, Che è meglio - luna o mezzaluna?/ disse la luna né l’una né l’altra, optando però in un secondo tempo per una versione meno ad effetto, ma più vicina al modello inglese: disse la luna: né questa né quella. La Virgillito mantiene, inoltre, il rispetto del registro: alto quando è alto, basso dove è tale. Due poesie possono esserne esempio: la 1247 e la 1755. La prima di contenuto alto e concettoso, Come tuono comprimersi nel limite -/ poi con fragore romper via -/ ogni creatura si nasconde - questo/ sarebbe Poesia; la seconda ironica e lieve, Per fare una prateria ci vogliono/ un’ape e una gaggia,/ un’ape, e una gaggia,/ e fantasia./ La fantasia da sola basterà/ se scarseggiano le api.
Attraverso, infine, la critica genetica delle varianti contenute nei manoscritti, mi è stato possibile seguire e comprendere non solo il procedimento di traduzione, ma soprattutto, quello di invenzione artistica di Virgillito. Nei casi, infatti, di poesie con più di tre varianti, l’atteggiamento costante della tradutrrice sembra quello di seguire inizialmente una traduzione letterale piuttosto istintiva che affina progressivamente attraverso approssimazioni lessicali e morfologiche per aderire poi al modello dell’originale inglese. Di questo, nel frattempo, era riuscita a cogliere il nucleo, ripercorrendo in parallelo la stessa ricerca del significante più adeguato che Dickinson aveva fatto per arrivare alla stesura definitiva. Un esempio chiaro di questo processo è evidente nella traduzione della poesia 1760 che riveste un’importanza particolare e simbolica in questa raccolta, essendo l’ultima alla quale Virgillito ha lavorato pochi mesi prima della morte e che ha, infatti, come tema centrale proprio l’attesa dello “sconosciuto”. La poesia presenta cinque versioni nelle quali il problema principale è la traduzione soprattutto di tre versi della seconda quartina: What fortitude the Soul contains,/ that it can so endure/ The accent of a coming Foot -. La genesi dalla prima alla terza versione è la seguente: Quanto coraggio l’anima contiene,/ se può reggere all’accento di un passo che viene/; Quanto coraggio l’anima contiene/ se non crolla/ al tocco di un passo che viene/; Quanto coraggio ha l’anima/ se può reggere/ un passo che s’avvicina/; per concludere al quinto tentativo: Quanto coraggio in un’anima se/ può reggere così/ a un passo che s’avvicina. Virgillito passa quindi da una traduzione meramente letterale (l’accento di un passo che viene) – ma provando allo stesso tempo l’effetto semantico di vari lessemi, regge/sopporta/crolla – per approdare infine ad una nuova e fedele scrittura dell’originale che solo un poeta come lei poteva fare.
Questa affermazione mi pare trovi ulteriore conferma se si tenta un’analisi contrastiva della poesia in questione, tradotta da Virgillito (un poeta canone), con la traduzione di Silvio Raffo (traduttore poeta non canone) contenuta nella raccolta di tutte la poesie della Dickinson edita recentemente da Mondadori. Raffo così interpreta i tre versi della seconda quartina: Che forza assiste l’anima,/ se tranquilla sopporta/ il palpito di un passo/. Il traduttore, a mio parere, non solo non si attiene al testo originale (e di conseguenza non fornisce una traduzione letterale), ma addirittura introduce semantemi assenti nell’originale – ad esempio tranquilla – falsando con una scelta lessicale discutibile il processo semantico sotteso alla quartina: l’anima infatti contiene (contains) in sé la forza e non ne è assistita come Raffo traduce; il “palpito” (altro lessema liberamente introdotto da Raffo) non appartiene semanticamente al passo, ma, al contrario, all’anima che attende. Queste brevi osservazioni non sono, forse, sufficienti per confermare la tesi della traducibilità solo da poeta a poeta, ma lo sono sicuramente per ammettere che Rina Sara Virgillito più che tradurre, abbia trascritto in italiano quello che Emily Dickinson aveva pensato in inglese.

 


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