Il Brasile nel mio 
            destino... 
           Franco Vicenzotti
          Cominciai ad ascoltare 
            favole terribili e meravigliose sul Brasile dal mio povero nonno paterno 
            Giovanni Maria; avevo sei o sette anni e soprattutto durante i lunghi, 
            gelidi inverni friulani, al tepore del “fogolar”, il nonno 
            ripeteva, per l’ennesima volta, ma con accenti sempre nuovi 
            e variazioni e coloriture sempre diverse, storie legate alla grande 
            avventura della sua vita. Con tre fratelli nel 1901, decisero di lasciare 
            l’allora poverissimo Friuli – oggi una delle aree trainanti 
            dell’economia nazionale – e tentare l’avventura 
            delle “Meriche”. 
            Era il più giovane, aveva 14 anni, l’ultimo di una famiglia 
            di 8 fratelli ed una sorella, figli di poveri contadini. Sbarcarono 
            a Santos e furono contrattati da un ricco “fazendeiro” 
            di Santa Caterina, “para desbravar o mato”, uccidere le 
            belve pericolose, - onças e serpentes – ripulire l’ambiente” 
            dai “terribili” indios locali, orrendi antropofagi. 
            Io naturalmente vedevo mio nonno come un eroe del “Far West” 
            americano – già leggevo i fumetti di Tex Willer, Pecos 
            Bill ecc.- che con la sua pistola fiammeggiante apriva camini di civiltà 
            nella profonda giungla americana.
            Naturalmente la verità era diversa: l’esperienza dei 
            “colonos”, che rimpiazzavano gli schiavi negri, era durissima, 
            quasi disumana; mio nonno non sopportò oltre, dopo tre anni 
            rientrò in Italia e, con i soldini messi da parte, comprò 
            una piccola azienda agricola, con cui allevò i suoi 16 figli. 
            
            Ironia della sorte, oggi l’Italia, Paese ricchissimo, è 
            diventata sterile! 
            Se mio nonno fosse rimasto, e si fosse sposato qui, io sarei probabilmente 
            nato brasiliano...
            Il mio secondo incontro con il Brasile fu seguito dalla scoperta – 
            vero coup de foudre - del romanzo che una recente ricerca mondiale 
            tra i 1000 critici letterari più autorevoli ha indicato come 
            “il” romanzo del ‘900: “Grande Sertão: 
            Veredas” di Guimarães Rosa, che con “Cien Años 
            de Soledad” di Garcia Marquez, più contribuirono a far 
            sognare i giovani studenti europei su nuove frontiere di libertà 
            e spazi di sogno offerti dal “realismo magico” americano.
            “Grande Sertão” forse più di “Cien 
            Años de Soledad” avrebbe meritato il Nobel, ma l’essere 
            scritto in una lingua considerata minoritaria, ancorché imperiale, 
            lo ha ingiustamente relegato. 
            Questo mio secondo incontro con l’opera di Guimarães 
            Rosa, più maturo, ma ancora segnato da un inguaribile romanticismo 
            giovanile, avveniva sulla splendida traduzione di quel Bizzarri, ex 
            collega a São Paulo, di cui molti anni dopo avrei fatto pubblicare 
            il “Carteggio con Guimarães Rosa”. Questo era senza 
            dubbio un altro segno importante che il Brasile era nel mio destino, 
            anche se allora non avevo la più pallida idea che molti anni 
            dopo - come collega di Bizzarri -sarei diventato Direttore dell’Istituto 
            Italiano di Cultura di Rio de Janeiro. 
            Allora mi limitai ad incantarmi alle magiche imprese dello jagunço 
            Riobaldo e alla sua pervicace, testarda ricerca dell’amata Miguilin. 
            
            Naturalmente, quando, più di 3 anni fa, il mio governo mi offrì 
            la missione che ricopro, non esitai e accettai entusiasticamente. 
            Solo dopo poco più di un mese della mia permanenza a Rio corsi, 
            con grande arroganza, a comperare il ”Grande Sertão” 
            in lingua originale; dopo più di 3 anni di vita carioca sono 
            arrivato a pagina 20; se avrò una vita molto, molto longeva, 
            forse riuscirò a terminarlo. 
            Del resto, il linguaggio a volte barocco, a volte regionalista, a 
            volte gergale, a volte scientifico, a volte indigenista, a volte tecnico 
            rende, ad uno straniero, il piacere di leggere Guimarães, un 
            compito tanto difficile come probabilmente ad una persona di madrelingua 
            non italiana il tentativo di leggere “La Cognizione del Dolore” 
            o “il Pasticciaccio Brutto” di Gadda.
            Fortunatamente ho avuto un saggio consiglio da quel grande scrittore 
            e saggista che è “l’immortale” Da Costa e 
            Silva: abbandonarsi al ritmo ed alla musica delle parole del testo 
            di G. Rosa; se ne ottiene una comprensione razionale ma intima, profonda 
            e subconscia.
            Con la nascita a Rio di mia figlia Valeria, bellissimo regalo di mia 
            moglie Janeth che voglio pubblicamente ringraziare anche per il costante 
            sostegno nei miei a volte pesanti impegni protocollari, si è 
            splendidamente compiuto il mio destino: sarei forse potuto nascere 
            brasiliano, se mio nonno fosse rimasto, ma nascendomi una figlia carioca, 
            il mio desiderio di continuare la mia avventura esistenziale nella 
            splendida città in cui ho già comprato casa, diventa 
            più che un moto dell’anima una scelta della ragione.
            Del resto, partecipo intensamente alla “ way of life” 
            carioca, tanto rilassata e naturale, tanto legata all’apprezzamento 
            del quotidiano, poco preoccupata per il futuro: non è un caso 
            che l’intellettuale italiano oggi più amato dai Carioca 
            sia Domenico De Masi, il sociologo che ha volgarizzato quel concetto 
            di “Ozio creativo“ che in realtà è uno dei 
            valori fondanti della civiltà latina. Naturalmente per i Romani 
            “otium” non era stendersi sulla spiaggia ammirando gli 
            splendidi corpi delle ragazze “cariocas”: era piuttosto 
            meditare, pensare, sviluppare le proprie capacità creative, 
            crescere come individui, sfruttare il più intensamente possibile 
            ogni giorno che passa. 
            Diceva infatti Orazio: “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem 
            mihi, quem tibi finem di dederimt. Carpe diem, minime quam potes credula 
            postero”.
            Splendidamente rivisitato da R Browning: “Live today, for today 
            is life, the very life of life,for tomorrow is a dream,yesterday but 
            a memory, but today well lived will make tomorrow a dream of hope,yesterday 
            a memory of joy”.
            Non sono gli stessi concetti espressi dal più amato dei poeti 
            carioca Carlos Drummond de Andrade? “Não serei o poeta 
            de um mundo caduco, também não contarei o mundo futuro, 
            o presente é tão grande, não nos afastemos, não 
            nos afastemos muito, vamos de mãos dadas”.
            Mano nella mano quindi, e certamente i "carioca" hanno saputo 
            tendermi generosamente le mani perché il mio lavoro di intermediatore 
            culturale fosse un successo, come comprovato dalla Medaglia Tiradentes, 
            che recentemente mi è stata conferita nell'Assemblea Legislativa 
            di Rio de Janeiro. Premio che, al di là di ogni cosa, io considero 
            un omaggio ai buoni rapporti culturali tra il Brasile e l'Italia.