Vola alta parola
Intervista di Mario
Luzi a Mosaico Italiano
“Nell’arco di quasi cinquant’anni quella che poteva
sembrare una misura tutta privata ha assunto proporzioni insospettabili
e oggi appare come uno dei pochi strumenti di orientamento libero
nella foresta dei simboli contraddittori e spesso tragici del nostro
tempo” Carlo Bo.
Come si è costruito
questo senso d’armonia dinanzi a tanto smarrimento?
Nella poesia giovanile
,a cui allude Bo riferendosi alla “misura tutta privata”
c’era un lirismo verosimilmente introverso, che accompagnò
questi primi anni di acquisto di personalità linguistica; poi
in un libro come Primizie del deserto che è degli anni 48-
50, la lirica è alle prese con un mondo più oggettivo,
meno individualistico già aperto all’esperienza generale
dell’uomo….penso a questo libro “Primizie .. composto
in un periodo immediatamente post-bellico, potrei citare un testo
particolare “Invocazione”: è un poemetto articolato
in più parti, una suite organica, che si interroga sulle condizioni
dell’uomo, dell’individuo nell’universo ma da un
sentimento già di religione . In quegli anni del dopoguerra
iniziale c’erano certe speranze di progressione nell’umano,
nel giusto e che invece qui si rivelano fallaci, insicure e molto
tribolate, quindi c’era già questa condizione di disinganno,
di delusione, non disperata, questo mai, però triste e delusa,
il cammino dell’umanità non è che si sia avviato
dopo la guerra in una strada nuova, riprende i vecchi peccati, le
angustie umane. Si tratta di ripercorrere il cammino magari con più
esperienza, con più consapevolezza.
Non si sente più quel “ Mario irraggiungibile”
del “Quaderno Gotico?”
E’ vero, lì era appunto ancora un sogno che ha lasciato
il posto alla registrazione più riflessa…
Una pietas che “
vede, che penetra …”
Sì questa appunto c’è in Primizie..è già
una pietà diversa, di persone che hanno sofferto insieme, e
giudicano il mondo …c’è questa progressiva consapevolezza
de limiti dell’umanità, di questo Universo che ci ospita
e ci sovrasta anche... è al di sopra della nostra comprensione
e quindi c’è una consapevolezza di necessità di
essere meno orgogliosi intellettivamente e il ridimensionamento delle
ambizioni umane, delle presunzioni umane più che le ambizioni
… e c’è proprio il dimensionamento della storia,
a cui abbiamo dato sempre grande importanza perché è
la nostra storia, non ne conosciamo altre però… dobbiamo
anche educarci a sapere che la nostra storia non è la storia
del mondo ma di questa piccola specie umana che siamo noi e per noi
è importante ma dobbiamo anche valutare….
Nei suoi anni giovanili c’è un riferimento alla poesia
toscana che emerge dalla sua lirica con una forza delicata e con dei
rimandi al rigore dantesco e alla melopea del Petrarca... Nel ‘
44 ha ri-letto i poeti del 600/700.. ha rivisitato Cavalcanti, Dante..
ci vuol parlare di questa esperienza e di queste strategie dantesche
che in qualche modo le fanno riconquistare una ”autoanalisi
“nella sua poesia dei tempi successivi?
Sì, è innegabile che per uno scrittore italiano, per
uno che usa la lingua italiana il riferimento ai Maestri ai Fondatori
è inevitabile. Non se ne può fare a meno. Naturalmente
questo Incontro può avvenire a più riprese, in diversi
modi culturale, orale, nella ripresa dopo la guerra, dopo questo trauma
che ha avuto effetti e conseguenze nella mia poesia ecco l’
incontro nuovo, soprattutto con Dante, che è sempre stato presente
devo dire, ma numinosamente presente, o come persona che è
al di sopra, più che come maestro, come compagno di lavoro,
ecco che in questo momento c’è un riavvicinamento anche
cordiale, umano con il Grande Poeta che torna ad essere da Mito, un
maestro, un uomo che ha usato anche lui la lingua, ha avuto problemi,
anche lui aveva vissuto una crisi totale: la fine dell’impero-
che lui aveva sostenuto sempre- e tutte le istituzioni dell’epoca,
anche al tempo di Dante fanno una frana, e quindi anche lui deve sperimentare
la “ruina” la “ maceria “ generale come noi
dopo la guerra, non solo le rovine materiali ma anche le rovine culturali
delle istituzioni, quindi c’era questa analogia con lui. Naturalmente
quello che a noi mancava e che Dante aveva ( a parte il genio) era
la Fede, la sicurezza teologica, dottrinale che sosteneva anche questi
momenti di dolore, di sgomento..non è mai venuto meno il tomismo,
la fede cristiana in lui…
Fa riferimento anche allo stilnovismo salvifico di Dante contrapposto
allo stilnovismo tragico di Cavalcanti?
Sì è vero,
quello di Dante è animato da questa aspirazione, volontà
trascendente di conoscere il tutto attraverso l’esperienza amorosa,
mentre quello di Cavalcanti manca di questo sostegno morale, Cavalcanti
è un incredulo, imbevuto di dottrine materialistiche come Averroè,
Avicenna e quindi anche la poesia amorosa è una passione distruttiva
piuttosto che edificatrice come in Dante e in questo senso anche l’amicizia
intellettiva tra Dante e Cavalcanti si rompe... In Dante il suo poema
è salvifico perché l’esperienza che ci prospetta
nel suo poema principale è un’esperienza che non finisce
in lui ma che coinvolge tutti i suoi lettori: per questo Dante non
viene mai a noia, si rilegge sempre come se fosse la prima volta,
lui ci viene dietro, ci coinvolge come attori.
Per diversi critici, la
sua poesia dopo un’importante stagione ermetica si è
rivolta a uno spazio sconfinato, con degli altissimi imperativi morali,
una pietas cosmica e allo stesso tempo storica, con un rigore formale
stupendo, così raggiungendo il vertice della lirica europea
contemporanea.. ci vuol parlare di questo nesso talmente delicato
tra individuo, cosmos e storia?
Su questi giudizi io naturalmente
non mi pronuncio. Io dico che in fondo a ciascuno di noi, al di là
delle ragioni soggettive che ciascuno di noi ha e che lo giustificano
ragioni soggettive, peculiari ..c’è intatta e inesplicata
la ragione della Creatura umana come tale... c’ è il
creatore e la creatura: vediamo le cose da questo lato e devo dire
che questa distinzione creatura – creatore che esiste in senso
ideale io la sento sempre più in modo ravvicinato..anche la
creatura fa parte della creazione e il creatore anche lui è
una creatura… questa è una mia condizione attuale...
c’è una unità nell’universo che comprende
creatura e creatore per arrivare a questo non so dire il processo
logico più o meno descrivibile…se non questo affondare…
immergersi nella condizione creaturale come tale , nel creato, nel
mondo che abbiamo a disposizione... La creatura umana è posta
di fronte ai doni che ci sono stati fatti, della vita, della conoscenza
progressiva che hanno tante smentite, tante contraddizione tragiche.
Come il lettore Mario
Luzi analizza l’iter del poeta Mario Luzi?.
Ecco devo dire che non mi sono mai trovato nella condizione di stare
fermo in un punto e da qui dire “Ora mi guardo” invece
io sono sempre stato in movimento, e quello che ho esperito è
stato poi trasformato da altre cose che stavo facendo quindi non è
una condizione neutra che io abbia raggiunto un punto di equidistanza
da tutto me stesso.. è uno sguardo sempre in movimento che
io ho gettato su di me sul mio passato come sul mio presente e quindi
mi è difficile dare una risposta…c’è il
prodigio del vivente che non è mai lineare …non ha mai
uno sviluppo
in ogni caso non avremmo
apprezzato
Il saggio Vicissitudini e forma è considerato un ottimo strumento
per capire le esigenze etiche ed estetiche del poeta Mario Luzi, e
un testo importante per orientarsi nelle scelte della letteratura
contemporanea…
Ho sempre dato un valore
essenziale al movimento, alla metamorfosi, al mutamento e la vicissitudine
è fluidità mentre la forma è il suo antagonista
dialettico, cattura la realtà e questa dialettica continua.
Ci serve anche a spiegare molti aspetti della storia letteraria, della
storia dell’arte. Questo bisogno, necessità simultanea
di queste due potenze dell’umano, quella del muoversi e dell’astrarsi
, della contemplazione...
Parliamo di Firenze, quella
del Caffè San Marco, delle Giubbe rosse, del Duomo..la Firenze
dei turisti…Qual è la Firenze di Mario Luzi ? Notturna,
solitaria, collettiva... Lei si sente attratto anche da Siena?
Firenze è la casa
dove stai. Siena certo m’incanta sempre non l’ho ancora
mai detto, perchè non ne sono sicuro. Una volta su alcune pagine
che ho scritto per Emilo Cecchi a proposito della lingua fiorentina,
del linguaggio: lo trovai più cruento, una lingua più
aggressiva rispetto al senese… di Firenze ho scritto “.
..la città dura e tagliente che sprofonda nella sua pietra
e talora si ingentilisce in modo struggente” Almeno io la vedo
così, a volte non dolce, non ospitale. L’ho vista soffrire
per gli eventi bellici, alluvionali. E quindi ci sono questi legami
di tenerezza con lei, ma quello che mi piace è una severità
che si ingentilisce in qualche modo. Diventa tenerissima, di una tenerezza
quasi insostenibile, con questo cipiglio duro e se vogliamo un po’
imperioso, che ha elevato queste grandi chiese, cattedrali, che aveva
questo sentimento grande di sé però anche asciutto,
severo …
Luzi traduttore di Coleridge,
Shakespeare, Du Bos, Racine...Qual è il ponte tra il poeta
e il traduttore?
E’ un incontro con
un’altra cultura, con un’altra lingua ma devo dire che
non ho mai voluto teorizzare perché poi siamo sempre smentiti..la
traduzione è un fatto essenzialmente, squisitamente empirico.
La prima traduzione che ho fatto per “La barca” è
copia da Ronsard che è come un calco, diverso però dal
suo modello. Cosa volevo fare? volevo in un certo senso aderire a
un sentimento a una pietas... è una poesia nata come altre
per la morte di persone care. Poi Coleridge... ricordo che mi fu suggerita
questa traduzione da un mio amico che era un grande traduttore, Leone
Traverso. Voleva una mia collaborazione io mi accesi un po’.
Tradussi “ Kubla Khan” alcune altre liriche poi La ballata
del vecchio marinaio, che è un poema ma che presenta tonalità
che nella nostra tradizione non ci sono, perché anche questo
va considerato, il rapporto che c’è tra un’opera
e la sua storia la sua tradizione, rispetto a quello che viene tradotto
da noi per esempio non c’è la ballata narrativa, fiabesca
e metafisica come quella di Coleridge...
Questo incontro con altre lingue, altri stili, coincideva con un mio
bisogno di dilatare un po’ il regime mio espressivo dopo “Avvento
notturno” “Quaderno gotico” dopo il periodo ermetico…
trovavo delle sfumature, dei passaggi che in fondo nel rigore troppo
formale della mia poesia non c’erano e questo accostamento mi
servì per sviluppare poi una mia espressione linguistica che
troviamo nelle poesie di questo periodo, “Primizie del deserto”,
nel “Magma”. Un’altra grande esperienza fu la traduzione
di Racine “ Andromaque” che feci perché ero appassionato
dalla storia, la guerra di Trioa, lei che è stata fatta prigioniera
e incontra Pirro..è una storia molto bella... quante ragioni
per tradurre, come sono diverse, poi tradussi Shakespeare per il teatro,
proprio in quel periodo stavo scrivendo il Magma, e quelle potenzialità
dialettiche che nella mia poesia c’erano anche prima, ora io
avevo a disposizione un linguaggio idoneo a questo lavoro. Per me
ma anche per la traduzione stessa. Per uno scrittore la traduzione
deve avere una motivazione altrimenti non ha senso. Non è come
tradurre semplicemente. Ci sono dei professionisti per fare questo…
“Il viaggio di Simone Martini “ un poema di sfolgorante
bellezza..ci parla della sua genesi, della stesura, del tempo interno
ed esterno ?
Beh, direi che dopo avere
scritto “ Per il battesimo dei nostri frammenti” ( 1985)
e “Frasi e incisi di un canto salutare” (1990), a me pareva
che il mio discorso si fosse concluso, che io fossi arrivato con la
mia riflessione, meditazione. Però mi venivano delle poesia
, sentivo il bisogno di scrivere cose che mettevo lì e mi domandavo
che cosa significavano queste cose che mi veniva di scrivere.
Il tema era il ritorno, motivo antichissimo, primordiale, c’è
il viaggio e c’è il ritorno, mi riaffioravano poi cose
senesi, la mia infanzia è senese. Poi man mano che il libro
avanzava ero attratto da questi due poli: da una parte questa poesia
del ritorno, che non era però il ritorno sui propri passi..
un ritorno alle fonti, alle origini. E Siena…Simone Martini
che era il ricordo più cromatico, che introduce una dialettica
di colore dentro la luce, e allora Simone Martini diventò una
persona, un compagno di cui non potevo più fare a meno. E poi
lui era stato chiamato ad Avignone, la Francia, la cultura francese
che era un mio grande richiamo. E poi il ritorno, ma lui non pensa
di tornare a Siena, vuole andare oltre, un po’ come Dante, lui
era un buon lettore di Petrarca e Dante, aveva fatto il ritratto di
Laura, quindi era uno che la poesia la sentiva.. ecco Dante “Luce
intellettual piena d’amore..” questo mi pare che volesse
cercare.. A un certo punto, come succede…il libro comandò
me - che lo scrivevo.. non ero più tanto io ma lui che si stava
facendo e mi trascinava…facendomi capire quello che non avevo
capito, che stavo scrivendo..queste pagine erano delle pedine, delle
tarsie di questo poema, di questo libro…
Un libro di memorie lei
lo farebbe..oppure crede che la sua opera contenga già la dialettica
ricordo e oblio ?
La memoria… ogni volta che l’ho usata o che ho cercato
di ricorrere… la memoria forse è lei che ci usa, no?
sento che la sto trasformando..anche certe cose che ricordo, la memoria
a livello di ricordo, cioè circoscritto alle cose che abbiamo
visto, conosciuto… e poi io la trasformo ma credo che tutti
facciamo questo, ricordando non siamo più fedeli..forse inventiamo
anche il significato di quello che ricordiamo che allora non ci diceva
nulla… Un libro di memorie per me non ha molto senso..ammiro
i libri che sono stati scritti come quello di Arceri.. è un
libro molto bello…può avere aspetti poco gratificanti,
però quel libro è bello, di memorie scritte da se stesso,
per dirne uno ma ce ne sono tanti anche Iacopo Ortis... e per me,
io mi ritengo già raccontato in tutta la mia opera... La memoria
è una grande dimensione della nostra mente, della nostra psiche,
della nostra interiorità ma non sappiamo che cos’è.
Sappiamo solo che ci dà questa profondità, anche per
immaginare il futuro bisogna alimentarsi inconsciamente. La memoria
è nostra o è dei nostri padri. Influiscono in noi, io
penso, reminiscenze, cose che non sono nostre le abbiamo ereditate,
discutibili anche, penso a certi incubi che abbiamo che vengono da
lontano….
C’è una poesia
“Vola alta parola” che racchiude memorie e trasparenze
ma invita ad un accorato appuntamento con la luce..la parola rappresenta
per lei una stella, un punto fisso..come sua madre… un luogo
eccezionle, un osservatorio altissimo ..quali sono gli indirizzi dell’alta
poesia nei tempi nostri?
Non so se questa parola ha un tempo... o è fuori dal tempo.
Penso che sia nel tempo della creazione, sia dentro l’ordine
del creato e sia qualcosa che ci dà la rivelazione di questa
magnitudine,di questa grandezza e anche aspirazione a conoscere. E’
una parola che ha un indirizzo infinito, in un certo senso, che non
ha un termine. Una postina che la deve recapitare a… E’
una parola che ci illumina sul tutto, senza che noi possiamo presumere
di possederla, di conoscere, ci illumina e in fondo è una Grazia.