Diaspora e migrazione
intraeuropee in Luigi Meneghello, Carmine Abate e Jarmila Ockayova
Franca Sinopoli
Questo è un primo
contributo alla ricerca su alcuni aspetti della diaspora e della migrazione
nei tre autori migranti contemporanei citati nel titolo e vuole essere
al contempo un accostamento concreto a un’indagine più
vasta, mirante ad individuare un corpus di testi sufficientemente
significativo a provare la reale consistenza e le modalità
del discorso letterario scaturito dalle esperienze della migrazione
e della diaspora in Europa. Ci interessa mettere in evidenza il fatto
che il viaggio è strumentale a ben altro che al racconto dell’emigrazione,
essendo piuttosto una metafora del “dispatrio” (il neologismo
è tratto da Luigi Meneghello) inteso come presa di distanza
dall’idea di inclusività in quanto appartenenza allo
stesso tempo ad un luogo che segna la nostra origine e ad un essere
al mondo all’insegna di quell’origine.
Il taglio diacronico della ricerca complessiva che a noi interessa
è ovviamente quello moderno, a partire dalla grande migrazione
di fine Ottocento, in cui una parte non piccola dell’Europa
(e dell’Italia) emigrava soprattutto verso le Americhe, per
arrivare, come si è accennato, alle nuove ondate migratorie
verso l’Europa tra la fine del Novecento e l’inizio del
nuovo millennio. Per cominciare, portiamo in campo – attraverso
Luigi Meneghello, Carmine Abate e Jarmila Ockayova – tre epoche
della più recente migrazione novecentesca intraeuropea: quella
postbellica degli intellettuali italiani di cultura antifascista (Meneghello:
1947, dall’Italia all’Inghilterra), quella post-boom economico
dei giovani meridionali (Abate: 1971, dall’Italia alla Germania)
e quella verso l’Italia degli intellettuali dell’Europa
orientale dopo la “normalizzazione” (Ockayova: 1974, dalla
Slovacchia all’Italia). Le tre migrazioni circoscrivono una
triplice traiettoria intraeuropea che va da sud (-Italia) a nord (Germania)
(Abate), da est (Slovacchia) a sud (Italia) (Ockayova) e da nord (-Italia)
a nord-ovest (Inghilterra) (Meneghello). Passiamo ora ad inquadrare
i tre autori in una breve tipologia:
a) lo scrittore che nasce
come tale nel dispatrio-rimpatrio continui, come Meneghello:
Madonna quanti italiani ci sono nelle mie “memorie inglesi”!
Cercavo, scrivendone, di tenerli a bada, di sottacerli. Non doveva
essere un libretto sull’Inghilterra?
Niente da fare. Italiani di passaggio, italiani stanziali, italiani
in Italia, amici… Vederli qui, o da qui, li investiva di altra
luce, illuminava loro e me. Ma allora, domanda Giacomo, è stato
un dispatrio, o una specie di rimpatrio? (in: Il dispatrio, 1993,
p.93).
b) lo scrittore che si
sente straniero in patria, ma in senso “positivo”, poiché
egli ha scelto esplicitamente una identità a più voci,
linguistiche e culturali, nel caso di Abate:
Penso […] di essere oggi una persona che non possiede una sola
radice originaria, ma molte radici, che non parla solo una lingua,
ma più lingue: arberesh, italiano, tedesco, germanese, che
si trova a suo agio non solo in una, ma in molte culture […]
(J. Zoderer, 2001, p.305).
c) lo scrittore che ha
deciso di appartenere ad una patria-parola, cioè a una patria
letteraria, individuata dal passaggio tra due lingue (la prima allo
stesso tempo lingua madre e lingua letteraria; la seconda, lingua
letteraria, ma allo stesso tempo nuova lingua d’uso), come per
Ockayova:
[…] mi considero cosmopolita, prima che slovacca o italiana,
da molto tempo. Un po’ da sempre, da quando ho scoperto il mio
amore per la letteratura. La letteratura è strapiena di fratellanze
senza confini e offre una patria comune, indistruttibile e “semprepresente”:
la parola (in: D. Bregola, Da qui verso casa, 2002).
Questi autori ci permettono
di accennare alla possibilità di un aggiornamento del canone
della letteratura italiana contemporanea, per operare il quale introduciamo
tre elementi solitamente non considerati come fondativi del canone
che abbiamo ereditato dall’Ottocento: l’espatrio, l’emigrazione
e l’immigrazione, in antitesi rispetto alla tra lingua madre,
cultura, nazionalità, stanzialità sul territorio nazionale
e lingua letteraria. La patria spesso non coincide, per certi autori,
con la nazione. La nazione è una comunità politica e
una proiezione identitaria forte; la patria è certo un luogo
fisico, ma anche un luogo culturale che dà affinità
ai membri di una comunità producendo in essi una sicurezza
esistenziale. È per questo che, secondo gli storici (S. Lanaro,
1996), la patria ha un’antecedenza non solo cronologica ma logica
rispetto alla nazione. Viceversa, in senso più esteso, “patria”
può essere intesa come unione di più nazioni, ad esempio
la “patria Europa”, o “la patria grande” dei
latinoamericani, oppure può essere una patria acquisita in
un secondo momento, magari proprio in virtù di un viaggio emigratorio.
Cosa viene privilegiato dalla prospettiva che guida la nostra ricerca?
Innanzitutto la poetica della transitorietà e della migranza
tra culture e lingue europee, la quale può tradursi o meno
nel racconto della esperienza di una emigrazione/immigrazione; la
questione dell’identità (identità culturale, collettiva:
nazionale ed europea); la condizione della diaspora intraeuropea dei
tre scrittori e dei loro personaggi; la diversità tra lo stare
in diaspora e in migranza e il nuovo cosmopolitismo d’élite,
per il quale il letterato, come l’accademico, il manager o lo
scienziato, non hanno patria che non sia quella delimitata dallo spostamento
tra i non-luoghi della civiltà occidentale. In questo caso
si opera un uso esclusivamente metaforico del concetto di “migrazione”,
che rischia di cancellare ogni riferimento all’aspetto contingente
e storico del movimento migratorio (S. Ahmed, 1999, p.333).
Occorre chiedersi anche quale sia l’investimento ideologico
dello scrittore migrante nel lavorare per dar rilievo alla positività
del modus umano della “transitorietà”, dell’identità
molteplice e della capacità di forzare l’identità
stereotipata. Ecco allora, nel caso dei nostri tre scrittori, figure
come quelle del dispatriante in quanto amante della patria (Meneghello):
Qualcuno ha criticato come egoistico e ingeneroso, una prova di scarso
sentimento della Patria, il fatto che “io” (la prima persona
del racconto che in questo imita me) lasci l’Italia alla fine
del libro [Bau-sète!]. Per quanto riguarda me personalmente,
credo di poter dire che quello è stato invece uno degli atti
più patriottici che io abbia compiuto. Si potrebbe sostenere
che sono andato via (e così l’io del libro) per amore
di Patria! (in: La materia di Reading e altri reperti, 1997, pp.180-181).
Oppure come l’ “oliamondo”,
neologismo e metafora della condizione del migrante (Ockayova):
[…] e continuavano a sbagliare e a dare a ogni cosa a portata
di mano due nomi, a usarla in due maniere differenti (in: L’essenziale
è invisibile agli occhi, 1997, p.195).
O il pluripatride come
colui che vive in profondità (Abate):
Vivendo in due posti diversi tra loro come il sole e la luna, mi illudo
di vivere due volte, perché in ogni posto mi tuffo a capofitto.
Vivere sul pelo dell’acqua non fa per me (in: Tra due mari,
2002, p.196).
Questi scrittori hanno operato, e operano, per una Europa futura,
ma anche per una idea nuova di identità nazionale in Europa,
per una critica costruttiva della “nazione”, monoculturale
e normalizzante, intesa quest’ultima da un lato come sradicamento
delle società locali tradizionali (vedi Meneghello) e dall’altro
come modello esportabile utilizzato dal colonialismo e dal postcolonialismo
(insieme alla diffusione dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione)
per espandere l’Occidente, ciò che Latouche chiama “nazionalitarismo”
(S. Latouche, 1992, pp.81-84 ); ma anche contro una astratta identità
“transnazionale”, un nuovo universalismo che corrisponde
anch’esso ad una moda servile all’occidentalizzazione
del mondo.
Nel romanzo Tra due mari (2002) Abate mette in scena un protagonista
(Giorgio Bellusci) che è figlio di un emigrato calabrese persosi
nella “Merica Bona” (Gioacchino Bellusci), padre di una
emigrata in Germania (Rosanna Bellusci) e nonno di Florian, il giovane
co-protagonista, nato in Germania da padre tedesco e madre italiana,
attraverso il quale si compie la riconciliazione tra passato e presente.
Meneghello in Libera nos a Malo (1963) ha inventato attraverso il
suo alter-ego narrante un controcanto positivo al tipo del migrante
“scomparso” in America, presente seppure nello sfondo
nella storia di Malo, l’emigrante cioè che non solo non
ritorna ma “muore” al suo paese, si nega e cambia identità
nel nuovo mondo. Questo tipo di emigrante è accomunato, nella
percezione della collettività paesana, ai pazzi, agli alcolizzati,
ai malati, agli scemi. L’emigrante, alias Meneghello, è
invece colui che non solo legge il proprio dispatrio come “rimpatrio”
– alludendo in un’opera successiva (Il dispatrio, 1993)
alla rimembranza della storia di Malo e dell’Italia che sorge
in lui sin dal suo primo emigrare – ma racconta proprio in virtù
della distanza storica e geografica le generazioni di italiani vissuti
a Malo, il tramonto della società rurale e il nascere di quella
borghese evolutasi durante il fascismo, in cui lo scrittore legge
il mutare stesso degli italiani in un altro popolo, e il divaricarsi
tra la lingua italiana e il dialetto. Ockayova, infine, in Requiem
per tre padri (1998) incarna nel conflitto tra generazioni –
madre/figlia -, e nel rapporto tra la madre e i suoi tre mariti, quello
tra tre momenti diversi di un decennio della recente storia slovacca,
precisamente dal 1959 al 1969.
Va considerato il rapporto tra migranza e un altro senso di “generazione”,
quello costituito dai generi di testo/discorso in cui prendono forma
le narrazioni. Assistiamo in tal senso, e sulla base del nostro campione,
a tre varianti del romanzo: di formazione/emancipazione (Ockayova,
Requiem per tre padri); familiare, ma intendendo per famiglia anche
quella allargata della “compagnia” del paese di origine
(Meneghello, Libera nos a Malo, e Pomo pero) e del viaggio di ritorno,
seppure intergenerazionale, compiuto cioè dal nipote del protagonista
(Abate, Tra due mari).
Sempre secondo il campione di autori e testi da noi selezionato, il
poter raccontare l’esperienza si declina dunque come racconto
di tre patrie, e in particolare in Meneghello sotto forma di memoria
critica della patria (locale e nazionale), leggibile appunto come
patria/società tradizionale vs lo stato nazionale borghese,
ad esempio nel caso del diverso significato che assume l’attività
lavorativa (in: Libera nos a Malo, 1986, p.114). In Ockayova si tratta
invece della dicibilità o meno della verità storica
relativa alla patria slovacca sottomessa all’imperialismo sovietico.
(in: Requiem per tre padri, 1998, p.48), ed in Abate, la patria è
intesa come ricostruzione del filo delle generazioni e delle patrie,
che sono le società tradizionali presenti sul territorio italiano,
dagli arberesh protagonisti di altri suoi romanzi alle micro-comunità
meridionali, in particolare quelle calabresi (da Il ballo tondo, del
1991, poi riedito nel 2000, a La moto di Scanderbeg del 1999).
Per completare il nostro discorso dobbiamo rimettere in gioco due
elementi: il concetto di “diaspora” e quello di “migrazione”
in relazione alle loro opere. I tre autori partono infatti da una
analoga esperienza di emigrazione che li fa nascere e maturare alla
letteratura, e in questa esperienza perdurano. Solo Abate avendo scelto
di vivere a Trento, una città di frontiera, dopo una precoce
emigrazione in Germania, potrebbe far pensare a qualche forma di “ritorno”
in patria (ma la patria di questo tipo di scrittori è in genere
piuttosto sempre una patria locale, dunque il proprio paese di origine,
Carfizzi nel caso di Abate, proprio agli antipodi di Trento), che
invece non troviamo negli altri due, per diversi motivi anagrafici:
Meneghello, ultraottantenne, ormai considerato (anche se tardivamente)
uno dei maggiori scrittori italiani viventi, non è tornato
ad abitare stabilmente in Italia ma pendola dal 1980 tra Londra e
il Veneto; Ockayova, quarantasettenne nativa di Bratislava che vive
e lavora a Reggio Emilia, è arrivata in Italia nemmeno ventenne
e domina perfettamente la lingua italiana, al punto da essere maturata
come narratrice in una lingua acquisita, avendo pubblicato in italiano
ben tre romanzi e diversi racconti; a ciò bisogna aggiungere
nel caso della Ockayova la sua attività di traduttrice verso
l’italiano, fatto già in sé molto significativo,
ma che potremmo leggere anche in funzione della sua poetica tesa a
“pacificare” il presente, che è poi la dimensione
in cui l’emigrato una volta divenuto immigrato gioca il suo
futuro. Tutti e tre gli scrittori scelgono, attraverso il rapporto
con le generazioni passate, una via per pacificare il presente e risarcire
il passato, ferito dalla decisione di andar via e comunque definitivamente
tramontato.
Il concetto di “diaspora”, che abbiamo utilizzato accanto
a quello di “migrazione”, vorrebbe fungere da suo sinonimo
imperfetto, in quanto esso ne precisa e allo stesso tempo ne devia
il significato. Se ne allontana in quanto “diaspora” allude
tradizionalmente e negativamente alla disseminazione, in quanto rarefazione
e dispersione, del nucleo identitario forte di una collettività
che perde se stessa nel movimento centrifugo e forzato dell’allontanamento
dal proprio centro costituito dalla comunità (religiosa, etnica,
linguistica, nazionale eccetera). Ma allo stesso tempo la “diaspora”
è anche inseminazione, e dunque il concetto se sovrapposto
a quello semanticamente meno ricco di “migrazione” può
valorizzare la fertilità del migrante e del migrare in quanto
laboratorio di trasformazione, cioè di futuro.
Bibliografia delle opere citate
Abate, C., Il ballo tondo,
Roma, Fazi Editore 2000 [1991]
Abate, C., La moto di Scanderbeg, Roma, Fazi Editore 1999
Abate C., Tra due mari, Milano, A. Mondadori 2002
Ahmed, S., “Home and away. Narrative of migration and estrangement”,
in International Journal of Cultural Studies, 2 (3), 1999, pp.329-347.
Bregola, D., Da qui verso casa, Roma, Edizioni Interculturali 2002
(in preparazione)
Gnisci, A., Una storia diversa, Roma, Meltemi 2001
Lanaro, S., Patria: circumnavigazione di un’idea controversa,
Venezia, Marsilio 1996
Latouche, S., L’occidentalizzazione del mondo, [1989] tr.it.,
Torino. Bollati Boringhieri 1992
Meneghello, L., Il dispatrio, Milano, Rizzoli 1993
Meneghello, L., La materia di Reading e altri reperti, Milano, Rizzoli
1997
Meneghello, L., Libera nos a Malo, Milano, A. Mondadori 1986 [1963]
Meneghello, L., Pomo Pero. Paralipomeni d’un libro di famiglia,
Milano, Rizzoli, 1974
Ockayova, J. L’essenziale è invisibile agli occhi, Milano,
Baldini & Castoldi 1997
Ockayova, J., Requiem per tre padri, Milano, Baldini & Castoldi
1998
Zoderer, J., “Perdere la propria lingua può significare
perdere se stessi. Intervista a Carmine Abate”, in Comunicare.
Letterature lingue, 1, 2001, pp.299-314.