La terza sponda del Danubio

Wander Melo Miranda

Il titolo del presente testo riporta ad un altro testo, ad un altro fiume, dall'altra parte dell'Atlantico, smarrito nei confini del Brasile. Faccio riferimento al racconto "La terza sponda del fiume" di João Guimarães Rosa, edito nel 1962 nel volume Primeiras estórias. La brillante traduzione di Giulia Lanciani, pubblicata nell'anno del 2003, rende possibile il contatto del lettore italiano col capolavoro dello scrittore brasiliano. Nel racconto, il figlio narra la storia del padre, un vecchio contadino che un bel giorno si commiata dalla famiglia e per diversi anni vive solo in una canoa in mezzo al fiume vicino a1la casa — "il fiume li intorno estendendosi, grande, fondo, silenzioso che sempre. Largo, da non potersi vedere la forma dell'altra riva" (p. 38).
I motivi dello strano comportamento del padre rimarranno ignoti: pazzia, mantenimento di una promessa, malattia contagiosa? Il testo non dà risposta alcuna. Dopo un po', la moglie, la figlia e l'altro figlio lasciano la casa paterna. Solo il figlio-narratore e il padre rimangono nello stesso luogo di sempre. Sentendosi in dovere di sostituire il padre, il figlio gli fa un cenno e si offre ad assumere il suo posto: il padre accetta, ma quando si avvicina al margine, il figlio fugge spaventato e — colpevole. Il racconto finisce quando il figlio, ormai prossimo alla morte, desidera ripetere l'atteggiamento del padre.

Soffrii il grave freddo delle paure, mi ammalai. So che nessuno seppe più di lui. Sono uomo, dopo quest'omissione? Sono quel che non fu, quel che resterà taciuto. So che ora è tardi, e temo di abbreviare la vita, nelle bassezze del mondo. Ma, allora, almeno, che nell'articollo della morte, mi prendano e mi depositino anche me in una canoetta da niente, in quest'acqua, che non si ferma, dalle lunghe sponde: e, io, fiume in giù, fiume fuori, fiume dentro — il fiume (p.45).

L'emblematico testo consente letture distinte. In esse risaltano la stabilità del margine e la mobilità del fiume, invertite e riflesse nella vita della famiglia che continua nel suo costante fluire sulla terra ferma e nella vita del padre che si mantiene come fosse sospesa nella canoa sull'acqua. Oppure, tra la continuità che il fiume suggerisce e la discontinuità della canoa. O in altre parole, tra il continuo della storia e il discontinuo della tradizione. Negandosi a restare al posto del padre, il figlio rompe con la storia famigliare — la famiglia alla fine si disperde — e da questa rottura si instaura il discontinuo della tradizione che il padre nella canoa in un certo senso radicalizza, quando si allontana da tutto e da tutti. O è il contrario? La terza sponda, mai nominata nel racconto, si delinea come un qualcosa che fluisce e fugge da qualsiasi possibilità di chiusura in un significato esistenziale o letterario.
Le acque di questo fiume confluiscono in un altro fiume tramite l'indecisibile del linguaggio e della storia: il Danubio di Claudio Magris. Fiume smisurato ed enciclopedia di rovine, il libro di Magris coglie il senso sul margine e lo 1ancia in un al di là che lo svia dal suo corso regolare, anche se in nessun momento il narratore-viaggiatore abbandona la direzione imposta alle sue acque dalla natura. Per questo, nel viaggio lungo il Danubio o nel viaggio che é il Danubio, i 1uoghi visitati si vedono con la mediazione sovrana della cultura, dell'arte e della storia. Viaggiare lungo il Danubio significa percorrere il labirinto di una biblioteca borgesiana — "rappresentazione della rappresentazione dell'esistenza" (p. 197). Anche per questo il viaggio intrapreso sovrappone presente e passato nell' avvenire della scrittura, dota la narrativa di una temporalità speciale in cui il presente appare pieno di storia e il passato, a sua volta, sovraccarico di attualità.
Sin dall'inizio illettore sa che non avrà pace: "la vera letteratura non è quella che lusinga il lettore, confermandolo nei suoi pregiudizi e nelle sue sicurezze, bensí quella che lo incalza e lo pone in difficoltà, che lo costringe a rifare i conti col suo mondo e con le sue certezze" (p. 183). L'origine del resoconto si dissemina in una serie di possibilità di letture, anch'esse sovrapposte, di cui le diverse versioni sulla sorgente del fiume sono la metafora più cristallina e anche la più opaca. La questione dell'identità si pone come indagazione che verrà dischiusa durante la lettura come le onde che formano l' acqua del fiume quasi a conferma della sentenza di Eraclito portata all'estremo, che nessuno si bagna due volte nell'acqua dello stesso fiume...
In verità, Danubio propone al lettore un'archeologia del sapere che la letteratura può propiziare per la sua natura di un testo singolare e anonimo.

La privazione assoluta non può parlare; la letteratura ne parla e in qualche modo ne esorcizza, la vince, la trasforma in qualcosa d'altro, converte la sua irriducibile e inavvicinabile alterità in una moneta di uso corrente. (p. 138)

La vasta erudizione presente in Danubio è un'auto-parodia di forme di conoscenza cristallizzate col passar del tempo nel linguaggio letterario. Il sapere accumulato da interpretazioni successive è oggetto di inversione ironica e si rivela attraverso la negatività critica di forme del non sapere, mettendo in risalto il conflitto esistente tra le forme tradizionali di legittimazione culturale letterata e il lavoro di lutto per lo svuotamento storico del suo significato attuale. L'esperienza del conflitto suppone una distorsione delle innumerevoli tradizioni locali nel mentre le riafferma e le traspone sotto lo sguardo "straniero" che tende ad accettare la rinuncia all'interpretazione totalizzante — malgrado sembra inseguirla — come un'opportunità positiva per qualsiasi interprete, tenuto in convalescenza in un mondo in rovina, pietrificato dall'eccesso di informazione e saturo di significanti.
In questo scenario il lavoro dell'interpretazione (della letteratura, dell'arte) sarebbe condizionato alla prospettiva della sopravvivenza, della marginalità e della contaminazione di forme residuali ed eterogenee, irriducibili a processi di consenso. In tal modo l'interpretazione agirebbe in contropelo alle operazioni di unificazione imposte attualmente e che, con l'alibi dell'ottimizzazione della performance informativa e dell'accesso democratico alla tecnologia, agiscono in consonanza con imposizioni economiche e politiche globali. Per questo, la moltiplicazione dei "centri di storia " che procede da quanto sopra detto si rivela condizionata, nella sua diversità, all'informazione che viene data e che sparisce immediatamente per dar posto ad un'altra infonnazione, e così via successivamente in un processo accelerato di destituzione della storia.
In ogni modo qualcosa sfugge al modello totalizzante che riveste questo movimento pendolare di storicizzazione e della sua destituzione col quale sembra operare il fluire della lettura contemporanea. Resta pur sempre una una traccia residuale (una letteratura, un testo, un frammento) che interviene per trasformare lo scenario della produzione di significato, orientando nuovamente la conoscenza attraverso la prospettiva contingente dell'altro che resiste alla totalizzazione indifferenziata.
Con un processo di sostituzione, spostamento e proiezione di forme disgiunte di rappresentazione, Danubio istituisce una modalità di sapere culturale in cui si affermano diversi campi di forza significante e distinti criteri di valutazione. I diversi saggi del libro — che vanno da Goethe a Kafka, da Heidegger a Céline, fra tanti altri — segnalano che al valore, quanto orizzonte consensuale da essere attinto dal giudizio critico, fondato sulla richiesta di universalità e di totalizzazione, si contrappone la relazione come valore, facendo emrgere un "intra-luogo" discorsivo come possibilità di ridefinizione epistemica del proprio atto riflessivo che l'ha generato.
Alla scrittura letteraria — fiction, saggistica o critica, non importa quale sia — non resterebbe dunque che soffermarsi sull'autoriflessione delle sue premesse fino al limite della sua implosione e sulla rifunzionalizzazione del suo oggetto, anch'esso flessionato fino a destituire la trascendenza e la gerarchia che prima gli garantivano un luogo egemonico nell'ordine dei discorsi. A questo proposito il testo utilizza la natura interstiziale della letteratura — una fonna tra le altre, un valore tra gli altri — per gestire meglio lo spazio intervallare che gli garantisce la sopravvivenza culturale di cui gode nell'attualità.
Sulla scorta della lettura che fa Magris di Hegel e di Heidegger, "ogni pensiero veramente grande deve aspirare alla totalità e questa tensione comporta sempre, nella sua grandezza, anche um elemento caricaturale, una punta di autoparodia" (p. 68). Questo movimento simultaneo di costruzione e di decostruzione effettuato dal narratore-viaggiatore in Danubio sfocia nell'emergenza del frammentario e del residuale come forma di autoprotezione del linguaggio che si spande fino al limite dell'impossibilità di contenere tutto nello spazio del segno.
La logica del frammento è dunque decisiva per il fluire della scrittura. Avvalendosi della singolarità, in opposizione al tipico e al classificabile, attua contro la reificazione che è una forma di dimenticanza. Il lavoro archeologico dell'anamnesis agisce per tagli e ritagli nel continuum della storia, modificando quanto è già fissato e stabilendo un nuovo ordine correlativo a cui si aggiunge un significato supplementare ai testi portati alla luce nel corso del resoconto. I microtesti si succedono metonimicamente come frammenti non costituendo mai, ciò nonostante una unità definitiva. Il museo immaginario che si forma ricupera col frammento l'aura degli oggetti che il narratore-viaggiatore — trasformato quindi in collezionatore — incontra nel cammino.
Ciò che è distante diventa prossimo nell'immagine (Bild) in cui si sovrappongono l'immemoriale del passato e lo Jetztzeit. La tensione tra presenza e assenza inerente la costituzione dell'immagine come tale configura la scrittura di Danubio come un movimento di doppia approssimazione: a ciò che è distante nel tempo, a ciò che è lontano nello spazio. Collezionare "immagini" e raccontare storie diventano attività analoghe dato che si definiscono tramite una sorta di rito di reviviscenza in cui l'immagine-frammento, oltre a evidenziare la distanza del passato e il desiderio di redimerlo col presente, si rivela come rappresentazione disgiunta dallo spazio sociale. L'auto-inserzione del narratore-viaggiatore-collezionatore in una tradizione sotterranea — anche se fluviale — instaura un percorso laterale e obliquo di immagini d'identità che mettono in scena l'alterità degli individui e della cultura. Questo processo manifesta chiaramente la mancanza anteriore di una presenza, che l'origine indeterminata del fiume sintetizza, e mette in evidenza un'altra geografia che delinea lo spazio di resistenza alla totalizzazione.
La sopravvivenza del narratore-viaggiatore-collezionatore si afferma quindi come istanza di interazione nel tempo e nello spazio tra differenti generazioni di artisti, scrittori, scienziati, uomini e donne comuni, considerati tutti come possibili soggetti di un processo di significazione performativa, la cui emergenza accade per via della mancanza di regolamentazione del tempo cronologico, segmentandolo al punto di ridurlo alle orme dell'esperienza individuale e sociale rammemorata.
Orme sono vestigi di passaggi ma che rimangono come resti che riportano a due registri temporali eterogenei. Da una parte, per avere la valenza di sostituto, un'orma deve essere un segnale lasciato da qualcosa, è un qualcosa presente il cui contesto passato non esiste più; dall'altra parte, l'orma esiste solo per chi considera tale segnale come un segno presente di una cosa assente, come vestigio di un passaggio anch'esso non più esistente. Seguire un'orma o scrivere un libro di viaggi significa effettuare una mediazione tra il non-piu del passaggio e 1'ancora del segno: il passaggio non è solo negativamente ciò che è finito, ma ciò che è stato e che per essere stato è preservato nel presente. La letteratura diventa l'indicibile della storia.

La scrittura forse non può dare veramente voce alla desolazione assoluta, al niente della vita, a quei momenti nei quali essa è solo vuoto, privazione, orrore. Già il solo fatto di scriverne riempie in qualche modo quel vuoto, gli dà forma, rende comunicabile l'orrore e quindi, sia pure di poco, trionfa su di esso. (p. 137-138)

Danubio apre spazio — senza strepito, ma saldamente — a quel modo in cui le culture si riconoscono nelle loro proiezioni di alterità, già attraversate dagli effetti contemporanei della globalizzazione. In questo senso, il libro instaura forme singolari di interlocuzione (intersemiotica, interculturale) e che, a sua volta, sollecitano la costruzione di nuove finzioni teoriche. Questo atto di affermazione del luogo dell'oggetto letterario nella contemporaneità è sempre ricerca di una identità differenziata. Scrivere è liberare il linguaggio e il pensiero dalla subordinazione al reale e alle forme già istituite: scrivere è decostruire. La libertà dello scrittore sta nel fare che la letteratura sia una strategia di decentramento, una dinamica di trasformazioni, aggiunte, inversioni e appropriazioni del vasto repertorio ereditato dalla tradizione. Nell'era del tutto mediatica dell'esperienza, la letteratura può essere considerata una forma liminare di rappresentazione sociale, marcata internamente dalla differenza culturale e da nuove possibilità di senso e di significato. Il circuito instaurato di immagini e segni in remissione intermittente crea spazi propizi al confronto dei molteplici contenuti del sapere contemporaneo, stabilendo un processo intersemiotico che si concretizza tramite un rapporto di interlocuzione in cui nel libro produttore e recettore possono esercitare, in larga scala, la loro attenzione critica e la loro capacità di riflessione.
La costruzione dell'oggetto letterario come oggetto artistico dipende, parimente alle imposizioni di mercato, da questa interferenza mutua e dalla situazione interpretativa che, configurata dal dialogo tra autore, testo e lettore, funge da resistenza alla totalizzazione del senso e alla lettura unificatrice. Fare letteratura è fare arte nel doppio senso dell'espressione: una forma condivisa di ridimensionamento dell'eterogeneità comune alle pratiche sociali, politiche e culturali, un'apertura di percorsi mirando all'instabilità di identificazioni confortanti. Per questo la lettura di Danubio non favorisce la totalità della memorizzazione dei suoi elementi costitutivi, operazione possibile in linea di massima, ma non realizzabile per via dell'accumulo di citazioni, appropiazoni e riferimenti artistici e letterari che costituiscono la sua produzione. Il percorso più fruttuoso è quello di stabilire interventi precisi e attività interpretative singolari, di adottare una prospettiva di attenzione fluttuante senza ancoraggio delimitato. Se dare senso a un "testo" significa connetterlo ad altri testi, se significa costruire un ipertesto, il senso sarà sempre fluttuante in virtù del carattere variabile dell'ipertesto di ogni interprete: cio che importa e la rete di relazioni stabilita dall'interpretazione. Di nuovo il Danubio come metafora — della scrittura e della lettura.

Dove finisce il Danubio? In questo incessante finire non c'è solo un verbo all'infinito presente. I rami del fiume se ne vanno ognuno per conto proprio, si emancipano dall'imperiosa unità-identità, muoiono quando gli pare, uno un po' dopo, come il cuore, le unghie o i capelli che il certificato di morte scioglie dal vincolo di reciproca fedeltà. Il filosofo avrebbe difficoltà, in questo intrico, puntare il dito per indicare il Danubio, la sua precisa ostensione diverrebbe un incerto gesto circolare, vagamente ecumenico, perché il Danubio è dappertutto e anche la sua fine è dovunque in ognuno dei 4300 chilometri quadrati del delta. (p. 461)

Il delta del fiume incontra la sorgente nella sua molteplicità di direzioni possibili. La lettura del libro può ricominciare, all’infinito. O, di nuovo con le parole di Guimarães Rosa: “fiume in giù, fiume fuori, fiume dentro – il fiume”.





 

 


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